Trent’anni di tragedie e orrori: il Medio Oriente visto da Robert Fisk
L'Afghanistan e l'Iraq, l'Iran, la Palestina, il Libano, l'Algeria; le responsabilità dell'Occidente, l'Olocausto degli armeni e la sua memoria. Un angolo di mondo senza libertà nè pace raccontato dal grande inviato di guerra inglese
Si torna a parlare di Medio Oriente in questa alba di un nuovo decennio, grazie alla vicenda dei pacifisti italiani (fra cui dei varesini) e di molti altri Paesi bloccati al Cairo mentre tentavano di raggiungere la città palestinese di Gaza. Volevano ricordare l’operazione israeliana Piombo Fuso che un anno fa uccise qualcosa come 1400 palestinesi, fra cui un gran numero di bambini, in risposta ad alcuni lanci di razzi da parte di Hamas.
Non è forse strano che si torni a parlare di Medio Oriente a cavallo dell’anno nuovo, come un anno fa per Gaza; è da quelle terre infelici che venne quel Gesù di Nazaret dalla cui nascita (suppergiù) si datano gli eventi a livello globale.
Chi ben conosce le molteplici realtà mediorentali, tutte drammaticamente legate dalla mancanza di libertà, vero trait d’union della regione, è Robert Fisk, apprezzato e controverso giornalista inglese del Times prima, dell’Independent poi, dal 1976 corrispondente per il Medio Oriente con base a Beirut. Citando ad esempio colleghi arabi e israeliani, americani ed europei, per lui lo scopo del giornalismo è "monitorare le attività dei centri di potere" e testimoniare le conseguenze delle loro azioni. Sul campo, se necessario rischiando la pelle: come Fisk fece nel 2001, quando fu quasi ucciso a pietrate da una folla di profughi afghani infuriati sotto i bombardamenti americani.
Il suo "Cronache mediorientali", edito da Il Saggiatore in edizione tascabili, è un ponderoso tomo non adatto ai deboli di stomaco, che racconta, in modo esaustivo ma qua e là pesante e infarcito di giudizi, i drammi più sconvolgenti di terre martoriate, fra dittatori sadici, teocrazie fanatiche, intrallazzi e interessi occidentali, durezze israeliane, terroristi privi di scrupoli e tanta, tanta disperazione e follia. Il potere, cristiano, ebreo o musulmano, vi è indagato nei suoi aspetti peggiori, la simpatia è riservata alle vittime, tante, troppe. Il volume risale alla fine del 2005, ma è una lettura comunque raccomandata a chi vuole capire il contesto del conflitto ormai trentennale che oppone un multiforme e diviso Islam "integralista" a un "Occidente" trainato da Israele e dagli interessi petroliferi anglosassoni nel gorgo di fuoco di quello che fu un tempo il favoloso impero dei Califfi, esteso dal Marocco all’India, dal Caucaso allo Yemen.
A Fisk, l’uomo che in due occasioni intervistò Osama bin Laden prima che diventasse il ricercato numero uno al mondo, l’ottica libanese è entrata nel sangue, come la lingua araba che parla correntemente. In arabo è stato in grado di farsi capire dall’Algeria all’Afghanistan, rincorrendo le esplosioni del fanatismo, ora quelle che facevano comodo all’Occidente (la lotta antisovietica dei mujaheddin, armati e pagati dagli USA negli anni Ottanta), ora quelle che non facevano più comodo (i talebani, al Qaeda e l’11 settembre 2001, e l’insorgenza irachena).
La sua posizione è chiaramente filopalestinese, ma per Yasser Arafat non mostra grande stima; nè la sua analisi, severa verso Israele, gli impedisce una condanna forte di ogni violenza contro gli innocenti, e dunque con immagini e parole forti, dei crminali attentati suicidi contro i civili israeliani, o dei fatti dell’11 settembre 2001 a New York.
Israele, che vanta di essere l’unica democrazia della regione, ed è invece sempre più il fortino assediato (dall’interno!) dell’ultima crociata occidentale, "l’ultima guerra coloniale" nella ricostruzione operata da Fisk, non ne esce bene. In particolare Ariel Sharon, l’ex primo ministro e uno dei generali più studiati nelle scuole di guerra di mezzo mondo, è preso di mira per le gravi responsabilità in merito al massacro di Sabra e Shatila (settembre 1982), avvenuto letteralmente sotto il naso delle truppe di occupazione israeliane in Libano.
È solo uno degli abomini che Fisk racconta: e neanche il peggiore. Il giornalista ha coperto la guerra civile libanese (1975-1990), l’eterno conflitto arabo-israeliano, la rivoluzione iraniana (1979) che abbattè il regime crudele e venduto allo straniero dello Scià, rimpiazzandolo con una teocrazia sciita che sterminò quel che restava della sinistra socialcomunista; l’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979) che aprì il vaso di Pandora in quello sventurato Paese; la tragica e dimenticata prima guerra del Golfo fra Iran e Iraq (1980-1988) – oltre un milione di morti, tattiche da Prima Guerra Mondiale e armi della Terza, gli iracheni usarono anche i gas tossici cortesemente forniti da ditte europee, gli iraniani mandavano ragazzini tredicenni a "sminare" le posizioni nemiche saltandoci sopra. E ancora i bombardamenti americani sulla Libia del 1986, la seconda guerra del Golfo con la liberazione del Kuwait (1991); la tragedia dell’Algeria sconvolta dallo scontro fra l’esercito laico e gli islamisti che avevano vinto le elezioni ma cui non fu consentito di governare (1992-); il dramma sconvolgente, testimoniato in prima persona, della morte di centinaia di migliaia di bambini in Iraq per le sanzioni economiche e gli effetti catastrofici delle munizioni all’uranio impoverito usate dagli americani, causa di leucemie e tumori fin lì quasi sconosciuti.
Tutto culmina, dopo lo shock dei criminali attentati dell‘11 settembre in cui Fisk, voce fuori dal coro, si fece fin dall’inizio delle domande sulle cause profonde dell’accaduto, con la terza guerra del Golfo e l’invasione americana dell’Iraq. Nel momento in cui Fisk scriveva (2005), la situazione era di caos totale e l’insorgenza ai suoi massimi. Oggi al confronto appare ridotta, grazie all’operato politicamente accorto del generale Petraeus, ma si continua a morire ammazzati come cani, a Baghdad come nel lontano Afghanistan. È in questa vicenda paradossale e crudele che Fisk vede emergere i veri nodi del rapporto fra Occidente e Medio Oriente: alcuni temi che proviamo a tracciare sinteticamente.
– Dittatori USA e getta
Dello Scià già si è detto (alle torture atroci della sua SAVAK, addestrata da americani e israeliani, seguirono quelle della teocrazia khomeinista, ancora più spietata nel giustiziare ogni oppositore). Saddam Hussein negli anni Ottanta era ottimo amico degli USA in quanto nemico dell’Iran (che pure gli stessi americani armavano sottobanco…), e andava a braccetto in particolare di certi personaggi neocon che poi, giunti al potere, avrebbero brigato per abbatterlo. Fisk già allora ne parlava come del tiranno di un Iraq governato con il terrore delle camere di tortura del Mukhabarat, il servizio segreto. Luoghi dove gli oppositori politici potevano essere sciolti vivi in vasche di acido, stuprati, fatti a pezzi con seghe elettriche; dove i bambini venivano uccisi davanti ai genitori, i mariti torturati davanti alle mogli, giovani donne assassinate sulla sedia elettrica. Non sono fantasie di sadici degenerati, ma testimonianze personali anche di chi oggi siede nel nuovo governo iracheno a maggioranza sciita.
– Tradimenti e olocausti dimenticati
A scandalizzare Fisk sono gli atteggiamenti cinici o semplicemente sbagliati delle azioni anglosassoni nella regione. Dalle repressioni britanniche degli anni Venti in Iraq, con bombardamenti aerei e gas tossici, fino ad oggi. Con l’incomprensione generale dei motivi di ostilità all’"Occidente" e le relative dissonanze cognitive. Come quando tutti si ricordano dell’atto terroristico che portò all’abbattimento di un aereo a Lockerbie, in Scozia, nel 1988, ma quasi nessuno che pochi mesi prima l’incrociatore lanciamissili americano Vincennes aveva abbattuto un aereo di linea civile iraniano sul Golfo Persico.
Grida vendetta poi agli occhi di Fisk anche il modo in cui nel 1991, schiacciata la potenza militare irachena, sciiti e curdi iracheni furono dapprima incitati alla ribellione contro il regime baathista di Saddam e poi traditi e abbandonati ad una repressione mostruosa (a Saddam fu persino concesso di usare gli elicotteri), le cui fosse comuni emergono di tanto in tanto fra le palme e le sabbie di quella che fu la Mesopotamia, tra le culle della civiltà umana.
L’aiuto umanitario poi prestato ai curdi in fuga fu la classica foglia di fico. A complicare le cose, ieri come oggi, c’era la posizione dello Stato turco, che dovendo affrontare un’insorgenza curda in casa propria non voleva altri ospiti sgraditi. A Fisk questo, insieme a conoscenze libanesi, diede un’ottima "scusa" per raccontare l’Olocausto negato: quello del popolo armeno durante la Prima Guerra Mondiale, nel 1915-1916, quando li si sospettava di simpatie filorusse. Non vi furono camere a gas, ma un milione passa di assassinati, trucidati dal regime dei Giovani Turchi nei loro villaggi, annegati in massa in mare, fatti perire in marce della morte verso i deserti della Siria. Spesso con la complicità, tragicamente, proprio dei curdi. Un fatto che il governo turco ancora oggi nega recisamente, nel silenzio assordante degli alleati NATO; e non sembra di ricordare che i neocon di tutte le longitudini abbiano granché menzionato questo egregio caso di cristiani sterminati da musulmani. Al contrario Osama bin Laden, dalle sue caverne afghane, per Fisk è ancora ossessionato dal ricordo della splendida Andalusia musulmana perduta cinque secoli fa. Quando i fanatici erano i cristiani.
– Petrolio, terrorismo e strategie
Quando Saddam, preso da manie di grandezza, occupò e mise a sacco il Kuwait (1990), si scoprirono gli altarini. L’area più ricca di petrolio al mondo era a rischio: a rischio di non essere più nelle mani "giuste", ossia quelle "occidentali". Fu guerra, una guerra con armi da fantascienza, nel segno della diretta tv. Ma mai l’informazione subì una debacle così totale, imbrigliata e controllata. Sempre il petrolio per Fisk sta dietro all’invasione dell’Iraq nel 2003: i pretesi legami del laicista Saddam con al Qaida erano una bufala, così come le armi di distruzione di massa già trovate ed eliminate dagli ispettori Onu. E sempre il petrolio saudita (e i dollari americani, indirettamente) ha finanziato l’espansione in tutto il dar al-Islam della fanatica dottrina religiosa wahabita, in vigore in Arabia Saudita, la patria di bin Laden e dei dirottatori dell’11 settembre. Dove sta la radice del problema, dunque? In Iran, come piace pensare ai "falchi" di Washington e di Tel Aviv, in fondo è lì che tutto ha inizio nel 1979, o nella terra del Profeta? Il vero scopo dell’invasione dell’Iraq, come Fisk in un passaggio ammette, oltre a mettere le mani sul petrolio iracheno era di tipo strategico: controllare da vicino l’uno e l’altro obiettivo, ma soprattutto attirare gli islamisti in un conflitto locale per tenerli lontani dall’Occidente e dalla possibilità di compiervi ulteriori crimini. Gioco riuscito in pieno: sulla pelle degli iracheni, naturalmente.
Link IBS: Cronache Mediorientali, di Robert Fisk, il Saggiatore tascabili
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