Picchiano il compagno disabile e lo filmano: sei mesi di carcere, ma a Google
Ha destato scalpore la sentenza del Tribunale di Milano: per la prima volta un sito è stato incriminato per dei contenuti caricati dagli utenti
Ha stupito non poco la recente sentenza del tribunale di Milano, che ha condannato tre dirigenti di Google per la pubblicazione su Google Video di un video in cui dei ragazzi spintonavano un coetaneo affetto da autismo. Una sentenza destabilizzante per diversi motivi, e non propriamente leggera. I tre dirigenti americani di Google Italy, infatti, sono stati condannati a sei mesi di reclusione, con condizionale. Ovviamente è già stato fatto ricorso e si dovranno aspettare diversi mesi prima di conoscere l’esito reale di questa vicenda.
La sentenza stupisce perché, fino ad oggi, in tutti i paesi del mondo si tende a lasciare la responsabilità dei contenuti al soggetto che li pubblica, non a chi li ospita sul suo server. Negli Stati Uniti questo è ben specificato in una legge (la sezione 230 del Comminications Decency Act) per un motivo molto semplice: paradossalmente, con questo atteggiamento, chi detiene sistemi di censura e moderazione viene responsabilizzato più di chi non li possieda. "Se sono in grado di eliminare un video verrò accusato di non averlo fatto": era questo il pericoloso atteggiamento delle aziende americane, fino a qualche anno fa. Non finisce qui: è anche inimmaginabile una censura preventiva sulle migliaia di video che ogni ora vengono caricati su siti popolari come YouTube.
Si può dire che, operando in Italia, Google debba rispettare le leggi italiane, non quelle americane. Infatti Google è una delle poche aziende ad aver firmato gli accordi di "approdo sicuro", concordati tra l’Unione Europea e i social network americani che vogliono operare in Europa. Gli accordi di approdo sicuro, però, non parlano assolutamente di una responsabilizzazione dei siti in merito ai contenuti generati dall’utente, ma solamente di una collaborazione con le forze dell’ordine il più veloce possibile una volta individuato il contenuto incriminato.
La difesa dei dirigenti di Google, David Carl Drummon, George De Los Reyes e Peter Fleischer, verterà proprio su questa deresponsabilizzazione, senza la quale gran parte dei servizi online sarebbe inimmaginabile. Contro il celebre motore di ricerca, però, va segnalato un ritardo di ben due mesi prima dell’eliminazione del video, che nel frattempo era stato visualizzato 5.500 volte. Allo stesso modo, tuttavia, bisogna segnalare che la popolarità del video era decollata proprio grazie al clamore suscitato da alcuni giornali online.
Cosa che, tra l’altro, sta accadendo in questi giorni con alcuni gruppi Facebook: basta linkare un gruppo contro Berlusconi o un gruppo contro i Down sulla home page dei giornali online più letti d’Italia, e il boom di iscrizioni è assicurato.
Probabilmente, questa sentenza, ha lunga vita. In gioco non c’è solo la pena inflitta a Google, ma la definizione di un paradigma pretestuoso o realmente efficace per la protezione dei minori su Internet.
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