“Mi aspettavo un normale venerdì, invece…”

"Invece mi sono trovata a correre via su un motorino tra manifestanti, esercito e barricate": continua il diario dalla Thailandia di Rachele Meazza, dove anche venerdì 23 sono continuati gli scontri

Sono uscita di casa tranquilla stamattina, con mia mamma e mia sorellina. Ieri sera avevo visto al telegiornale le immagini delle granate lanciate nella stazione dello skytrain in Silom Rd, che hanno causato pochi morti e una sessantina di feriti.

Mamma mi ha dato comunque il permesso di uscire, sapendo che avrei preso il pullman per altre strade, visto che lo skytrain e la metropolitana sono di nuovo chiuse. Vado in posta, poi prendo un Songteo per tornare sulla strada principale, aspetto il 142, sicura che mi avrebbe portata in Sukhumvit Rd. Gli altri passeggeri mi spiegano che il pullman avrebbe fatto un’altra strada, così mi sono ritrovata abbandonata nel mezzo del nulla a Bang Na, aspettando il 508. Arriva il pullman, salgo e mi viene detto che sono dal lato sbagliato della strada, attraverso, ci riprovo. Tra me penso che oggi devo avere meno Karma Points del solito, tutto sta andando storto.

Arriva il pullman, dico al bigliettaio che devo andare in Sukhumvit Soi 31 (Sam sip et in thai), ma il mio accento deve essere stato sbagliato, e lui capisce Sam sip ed, 38. Mi ritrovo quindi per l’ennesima volta in un posto sconosciuto. Prendo lo skytrain che per poche fermate è aperto, e finalmente raggiungo Soi 31. Avevo appuntamento con un italiano che gestisce un ristorante qui a Bangkok. Inizio a camminare per questa via sotto il caldo sole delle undici. Il mio Karma deve essere stato molto negativo oggi, perché mi sono più o meno persa. Ho trovato quattro ristoranti italiani, ma non il "Bella Napoli" che cercavo. Nel frattempo saluto per la decima volta i militari appostati accanto al filo spinato fuori dalla casa del Primo Ministro.

Mi avevano vista andare avanti e indietro con aria sperduta per mezz’ora. Chiedo informazioni ai poliziotti, che non so come mi hanno capita in thai, ma ne sapevano meno di me, e mi sono ritrovata a girare a vuoto. Dopo un’ora ho trovato il posto che cercavo, ho avuto una vera pizza e un vero caffè dopo nove mesi di cibo thai. Ho conosciuto un paio di persone della fauna composta dagli italiani espatriati in Thailandia, ho ascoltato pezzi delle loro storie. Ho parlato per ore con Maurizio, accorgendomi di quando quello che provo in questo paese sia lo stesso per lui. Con il sorriso mi rituffo nell’afa pomeridiana cercando un modo per tornare a casa. Credendo ormai aperta tutta la tratta dello skytrain faccio il biglietto, ma mi dicono che posso andare fino a metà, saltare tre stazioni, e poi risalire.

Scendo e mi trovo nel mezzo dei manifestanti. Maglie rosse ovunque, uomini e donne in fila sotto il sole per il pranzo, mi ricorda il rancio dei soldati al tempo della guerra. Parrucchieri improvvisati tagliano i capelli sotto rossi capannoni, donne si fanno fare massaggi alle gambe, bambini dormono sulle amache appese tra un pilone e l’altro dei ponti. Gli altoparlanti diffondono la voce di uno dei capi, la gente applaude, urla. E’ più di un mese che sono per strada, e sono ben organizzati. Tende, baracchini con cd in vendita, magliette, cibo, telefonini e tutto quello che può servire. Monaci con le vesti arancioni spiccano tra il rosso e il nero dei manifestanti.

Nero, questo è il vero problema. Sono i più agguerriti, dei mercenari, avanzi di galera, disposti a tutto per qualche soldo in più, se dovesse andare male, ritornerebbero da dove vengono, in prigione. Guardo una bambina di otto anni che mi sorride, con i nastrini rossi tra i capelli, e penso a Thaksin, il quale ha dichiarato che sta bene, che è andato in Svezia perché gli piace il pane nero, e poi in Russia perché ama il caviale e la Vodka. E questi poveri operai e contadini passano le giornate sdraiati per strada, sotto il sole d’estate, per poter avere in tasca qualche soldo in più. Mi accorgo che non esistono pullman, taxi, niente. Inizia a venirmi un po’ di panico, non mi va di attraversare da sola per tre chilometri tutti i manifestanti, nella zona dove ieri ci sono state le granate.

Vengo salvata da un uomo con un mototaxi, spiego dove vorrei andare, vede i miei occhi supplichevoli, mi fa un prezzo ragionevole, e mi aggrappo sulla moto dietro di lui. Inizia una marcia lenta, procedendo a slalom tra i manifestanti che mi guardano incuriositi. Si avvicinano alla moto che cammina a passo d’uomo, mi vogliono stringere la mano, io stringo la mia borsa, mi appiccico la gonna alle gambe e spero che il mio tassista mi porti via veloce. Mi sento gli occhi degli uomini puntati addosso, ricevo mille sorrisi. Io, straniera e sola, finita lì per caso, con le mie trecce innocenti al vento. Risento la stessa sensazione di qualche settimana fa quando facevo le foto ai dimostranti.

Non riesco a fotografare anche oggi, mi manca il coraggio. Si apre un cunicolo tra la folla, finisce la strada, siamo al famoso incrocio star Silom Rd e Rama IV, dove ieri sono scoppiate le granate. Chiedo al mio autista se da lì passano i pullman, mi dice di sì, ma preferisco andare un po’ più avanti. Arriviamo al maggior punto di ritrovo delle maglie rosse e vedo le barricate. Saranno state alte circa otto metri, fatte con bambù e copertoni delle ruote delle macchine. Sembra una frontiera di guerra, e lo è. In mattinata avevano minacciato di dare fuoco alle barricate, ma la polizia si è ritirata di qualche metro, non vogliono usare la violenza. Leggo gli slogan dei manifestanti, ci sono i simboli della pace, dicono che non vogliono violenza, solo vera democrazia. L’altro giorno hanno chiesto aiuto alle Nazioni Unite, vogliono il loro intervento per avere la pace. Il Primo Ministro ha dato l’ordine di muoversi immediatamente, non vuole ricorrere al sangue ancora una volta. Non credo che si sposteranno così facilmente. Ora per le strade ci sono anche i residenti e i commercianti, sono stufi, e la perdita economica è grande. Le maglie rosse hanno messo il paese in ginocchio, e se non è visibile ora, lo sarà tra poco. Ma anche adesso il flusso dei turisti è decisamente minore.

Come se non bastasse, ci sono anche quelli che si chiamano "no colours", ma le loro bandiere sono gialle, sono gli oppositori dei rossi, e nonostante loro neghino, sanno tutti la loro natura. Sono quelli che un paio di anni fa bloccarono per dieci giorni l’aeroporto. Tutti i colori scendono in strada, la confusione aumenta. Superiamo l’incrocio e quello che appare davanti ai miei occhi è peggio dei manifestanti. Squadre di polizia schierate su un lato della strada, caschi protettivi, e scudi per gli scontri corpo a corpo. Nell’altra mano, manganelli. Giro la testa dall’altra parte, vedo alcune vetrine rotte dagli scoppi di ieri sera, e file interminabili di soldati. Guardo i loro visi, osservo i loro occhi a mezzo metro da me. Sono ragazzi giovanissimi, coperti dai vestiti militari, casco nero, e fucile, o non so che tipo di arma, a tracolla. Vedo grandissimi camion militari, li sfioriamo con il motorino, sono enormi. I giovani soldati si riparano in case abbandonate, scappando ai quasi quaranta gradi delle due del pomeriggio di Bangkok. Mi guardano, mi accorgo di essere l’unica straniera in zona. Dannata casualità. Sento partire i fischi da questi giovani annoiati sotto il sole. Chiedo al mio tassista di fare più veloce che può. Durante il tragitto l’avevo sentito urlare qualcosa ai manifestanti, credo che anche lui sia uno di loro, ma ora con i soldati tace.

Arrivo alla fermata dello skytrain, lo pago più del dovuto, lo ringrazio con tutto il cuore, e gli faccio un sorriso enorme. Corro su per le scale, e via con questo treno a mezz’aria, accanto ai grattacieli, sopra alle baracche e alla rivolta di Bangkok. Anche dall’altra parte del Chao Praya River i pullman sono inesistenti, salgo su un taxi, ed esco dalla città, tornando nella mia casa in periferia. Piena di tutto quello che ho visto. Anche stasera arriverà il buio, e con esso, temo, altri scontri, altro sangue a colorare di rosso la Città degli Angeli, ormai volati via.

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Pubblicato il 23 Aprile 2010
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