La vita in attesa della morte
Mauro e Carmen sono due ospiti del reparto per malati terminali del Circolo. Un reparto dove si impara ad affrontare "la vita"
Carmen e Mauro. Due storie diverse, due destini differenti ma accomunati da un’esperienza profonda che li sta aiutando ad affrontare l’oggi. Lei è al fianco del marito Antonio, da un mese ricoverato all’hospice dell’ospedale di Circolo per un sarcoma alla gola. Lui, vittima di un tumore al cervello, è stato il primo ospite a metter piede nel nuovissimo reparto per malati oncologici terminali.
Entrambi vivono quotidianamente con l’ingombrante presenza della morte. Il futuro non esiste: esiste solo il presente. Ma nell’hospice, l’oggi ha acquistato una sua importante dignità.
«Antonio è convinto di tornare a casa – rivela Carmen da due anni al fianco del suo grande amore in un calvario di visite, operazioni e dolori – ma da qui non ce ne andremo. All’inizio ero spaventata. Non volevo accettare l’idea di fare l’ultimo ricovero. Mi dicevo: ci stiamo giusto il tempo per rimetterlo in forze. Invece ho trovato una grande serenità. In questi corridoi non c’è l’odore della morte ma la serenità e la pace della vita. Quella pace che a casa non riuscivo più a garantire. Io lavoro in una casa di cura, ho a che fare con i malati. Ma la sofferenza e le continue emorragie… Non ce la facevo più: ero sola e impaurita. Qui ho ritrovato la voglia di reagire, di stargli accanto trasmettendogli coraggio e determinazione. Lui mi parla con gli occhi, mi dice che ce la farà, che ne usciremo presto. Per questo ho bisogno di sostegno, per aiutare Antonio a essere forte».
In reparto, gli infermieri sono vestiti con la tuta da ginnastica. Hanno tempo per dedicarsi sempre a chi ha bisogno. Ci sono di giorno e di notte, per assistere, per curare il dolore fisico ma anche quello dell’anima « Se mi offrissero una settimana di ferie su una nave da crociera io rifiuterei pur di tornare all’hospice» Mauro, un tumore al cervello che gli procura squilibri, vertigini, assenze, dopo tre mesi di ricovero all’hospice si è stabilizzato ed è tornato a casa: « Mi avevano detto che non sarei arrivato a Natale…». Ora è assistito al proprio domicilio, ma è legatissimo a quel reparto che ha visto nascere: «All’inizio era un casino. C’era la lavastoviglie che non era allacciata, il forno che non funzionava. Poi questi ragazzi, a poco a poco, hanno creato un ambiente unico dove ti senti proprio in famiglia».
Anche per Mauro, il momento del ricovero non è stato semplice: «Da dieci giorni ero in pronto soccorso. Quando mi è stato comunicato il trasferimento è stato un momento molto brutto: ero convinto che mi mettevano da parte, chiuso in una stanza ad aspettare la morte. Quanto mi sbagliavo!!!È impressionante la disponibilità che ho trovato da parte di tutti: medici, infermieri, assistenti. È stato come rientrare a casa. Avevo la massima libertà: uscivo dall’ospedale a bere il caffè, invitavo ospiti a pranzo o cena, giocavo a carte, guardavo la tv. È arrivato persino il presidente Formigoni e mi sono lamentato che non c’era internet. Il giorno dopo avevo computer e collegamento…».
A far la differenza è il clima di aiuto e solidarietà che si instaura: parlare della morte è difficile. In un ambiente dove è necessario fare i conti con il profondo senso della vita, i rapporti cambiano e la paura di quella parola passa per lasciare spazio ad una nuova dimensione, proiettata all’oggi, alle piccole cose, alle soddisfazioni immediate, ai desideri raggiungibili « la gente non deve spaventarsi davanti alla parola “hospice” o “cure palliative” – commenta Mauro – ma deve cercare il significato profondo delle parole “assistere”, prendersi cura, aiutare ad affrontare il proprio destino».
«Mi sto preparando – ammette Carmen – incontro lo psicologo, mi confronto con gli altri parenti e gli infermieri. Quando ho bisogno c’è sempre qualcuno disposto ad aiutarmi. Nel nostro calvario sono state determinanti alcune persone: il dottor Bignami che è l’oncologo che ha curato mio marito, e alcuni amici veri come Elena. In questo reparto, però, ho trovato quella forza che stavo smarrendo a casa mia. Non so cosa succederà quando arriverà il momento. Ho una grande paura. Non mi stacco da lui un secondo perché devo vivere tutto. Poi mi rimarranno i suoi quadri e la musica: io canto in un’orchestra e la mia voce era un motivo di vanto per Antonio. Non abbiamo avuto figli e tutto il nostro amore lo abbiamo riversato l’uno sull’altra. Io ho fede e so che lui andrà a stare meglio. Il cancro è il male del secolo e tutti noi ne siamo terrorizzati: in questo hospice ho trovato la solidarietà e la comprensione necessarie per andare avanti. Mi sto preparando con loro. Spero di essere pronta».
Le storie si intrecciano, in questo corridoio, e non c’è il miracolo che stravolge le cose. Non c’è il lieto fine, ma un finale un po’ più “lieto”.
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