Bcc : “Non è tutta colpa del credit crunch”

Dalle imprese ai dipendenti, dai fornitori alle Banche, ecco passaggio per passaggio l'effetto domino che si sta abbattendo sul sistema economico locale. Con concordati chiusi anche al 4-5% e la svalutazione degli immobili in garanzia il creditore in posizione di forte debolezza

Chiamiamolo effetto domino: forse è l’immagine più efficace per descrivere quello che sta succedendo in economia, a tutti i livelli. La Banca X finanzia l’impresa Y, che onora le rate del credito fino a che la crisi non colpisce. A quel punto non paga più, né la banca creditrice, né i fornitori. Se non fallisce, a quel punto l’impresa, nella migliore delle ipotesi, chiede il concordato preventivo: i suoi dipendenti restano senza lavoro. La Giustizia riconosce a loro, in primis, i soldi che deve, poi è la volta dei fornitori e delle banche, che chiudono su percentuali che, molto spesso, non arrivano alla doppia cifra. Ergo la banca recupera, e sono i casi sempre più frequenti negli ultimi anni, meno del 10% di quanto ha impiegato.
Poi c’è la situazione di chi ha perso il lavoro e delle aziende fornitrici che hanno recuperato qualche soldo in più, ma che ci hanno comunque rimesso in modo pesante. Aziende che hanno sicuramente dei dipendenti e, con buone probabilità, anche chiesto qualche prestito alle banche. Quanti dei loro clienti sono falliti, facendo perdere dei soldi? Per quanto moltiplichiamo, quindi, la perdita maturata nei confronti dell’azienda Y? Sarà ancora in grado l’azienda fornitrice di pagare, a sua volta, le rate del finanziamento alla banca? «È vero che una banca ha come garanzia verso chi finanzia con somme importanti un immobile, ma quello che può recuperare oggi, sempre che riesca a venderlo, è una minima parte del suo valore originale» dice il presidente della Bcc Roberto Scazzosi ( a destra nella foto).
Facciamo il caso di un’azienda che per un finanziamento di 800mila euro dia in ipoteca un capannone stimato un milione e 200mila euro. Dopo un po’ di tempo non paga più e la banca comincia la procedura esecutiva per mandare il bene all’asta. Viene nominato un perito che lo valuterà qualcosa meno del valore iniziale, diciamo 1 milione 100mila euro; su questa valutazione, oggi con un mercato immobiliare crollato, viene fissato un valore di realizzo più basso del 25%, altrimenti non ci sarebbe possibilità di vendita. E siamo a meno di 800mila euro. Se nelle prime due aste il bene resta invenduto, il valore di realizzo viene decurtato ulteriormente del 20%. A questo punto il valore è già dimezzato. Ma la corsa al ribasso potrebbe continuare se ancora non si trovassero acquirenti. «In queste condizioni accumulare perdite diventa facile – continua Scazzosi-: aziende insolventi causa crisi, svalutazione del valore degli immobili: dove finiscono le garanzie dei creditori?».
Perché questo è aspetto poco esplorato nella disamina economica congiunturale, ma c’è e pesa. «Quando sento accusare indiscriminatamente le banche per la stretta creditizia o credit crunch che dir si voglia provo dispiacere -dice il direttore generale della Bcc Luca Barni (a sinistra nella foto sopra)- innanzitutto chiedo a chi punta l’indice di leggersi i dati sulle sofferenze. I ventiquattro miliardi di euro sono i soldi impiegati dalle banche e ormai persi, quelli che non rientreranno più nella casse di chi li ha prestati e non potranno finanziare altre aziende: chi parla di credit crunch sa che cosa avrebbe generato questa somma se fosse ancora disponibile? Valgono una manovra finanziaria robusta e sono una perdita a carico di un settore che, di mestiere, presta i soldi a famiglie e aziende».
E per essere chiari parlare dell’azienda X che fallisce non è fare accademia. Uno sguardo ai numeri dei fallimenti registrati nei tre Tribunali ai quali fa capo il territorio della Bcc vale la pena darlo proprio per restituire, dati ufficiali alla mano, la gravità della situazione. Partiamo da Milano, il Palazzo di Giustizia più grande che ricomprende il territorio della provincia milanese, e partiamo da un anno normale, il 2007, quando ancora della crisi non c’erano segnali. Le aziende che avevano alzato bandiera bianca erano 472; numero ritoccato in alto già nel “fatale” 2008, l’anno zero della crisi, con 672 casi. Negli anni successivi l’escalation continua: 797 procedure concorsuali nel 2009, 986 nel 2010 e 1114 nel 2011; un trend inequivocabile che non accenna a rallentare se pensiamo che al 10 febbraio 2012 le procedure erano 124 contro le 90 di dodici mesi prima. A Varese numeri più contenuti, ma tendenza quasi identica: nel 2007 sono trentasei i casi di aziende fallite, nel 2008 salgono a 51, nel 2009 schizzano a 92, nel 2010 flettono a 76, per impennarsi a 125 nel 2011. Alla fine di gennaio 2012 le croci sulle imprese sono già 13. Chiudiamo il giro con il Tribunale di Busto Arsizio, dove nel 2007 i fallimenti sono stati 36, sono saliti a 66 nel 2008, a 84 nel 2009, 86 nel 2010, 101 nel 2011 e già 18 a metà febbraio 2012 con oltre 600 pendenze. Se è pacifico che i fallimenti non siano distribuiti con regolarità nel corso dell’anno, a oggi la situazione resta, numeri alla mano, peggiore di quella dello stesso periodo del 2011. E queste sono le aziende fallite e i soldi persi da chi aveva concesso prestiti.
Le banche non si sono comportate tutte allo stesso modo. Le rettifiche di valore nel 2011 dei grandi istituti sono in diminuzione a fronte dell’aumento delle sofferenze del sistema bancario. Una stranezza che si spiega in un modo solo: c’è chi ha continuato a sostenere le imprese e chi ha fatto un passo indietro. Sul bollettino di Banca d’Italia numero 67/2011 si può leggere una diminuzione di impieghi nella parte finale del 2011, ma il differenziale di crescita nei 12 mesi cambia molto fra i primi cinque istituti, saliti dello 0,3%, e il resto delle banche, che hanno incrementato del 3,3%. La nostra Bcc è la dimostrazione di quel sistema bancario che nulla ha a che spartire con il credit crunch, avendo segnato sempre un segno più negli impieghi, anche nel periodo più critico per il sistema economico: più 4,3% nel 2009, più 4,9% nel 2010 e più 6 nel 2011. Ma non sono finiti qui i problemi delle banche. Alle difficoltà delle imprese alle prese con l’effetto domino di cui abbiamo parlato, si aggiunge il nodo della redditività. Anzi, «l’urgente bisogno di recuperare redditività», come dice il presidente di Abi Giuseppe Mussari. Un problema che è diventato strutturale dopo 3 anni di dati ai minimi storici con l’Euribor a tre mesi (il “regolatore” dei tassi) che dal 5,29% dell’inizio di ottobre 2008 si è inabissato sotto il punto percentuale a metà luglio 2009 e sino a metà ottobre 2010; quindi nei mesi a seguire sopra l’1% prima di chiudere il 2011 all’1,36%. A divorare il margine di interesse concorre anche il problema liquidità, ossia la concorrenza spietata fra banche per la raccolta di denaro, con il risultato di mandarne alle stelle il costo. Se infatti le grandi banche non hanno più potuto attingere al mercato internazionale, ripiegare sul nostro Paese ha significato alzare l’offerta. Quindi costo della raccolta elevato, costo delle rettifiche di valore risultato della crisi ma anche, in certi casi, di comportamenti anomali, dall’utilizzo improprio della legge fallimentare al ricorso abusivo al credito. «Quindi trovo riduttivo leggere la situazione alla luce del solo credit crunch – conclude Barni-: le banche, alcune banche anzi, possono aver tenuto una condotta criticabile, ma esiste un problema di rapporti anche nell’altro senso, cioè nell’alto costo delle raccolta: fatto, questo, che incide direttamente sui prestiti che le banche fanno. Nessuno si scandalizzi, né parli di rubinetti chiusi: sono le condizioni oggettive della congiuntura, valide per tutti. È questo il concetto che deve passare; il senso del sistema non può essere presente soltanto a una parte: da un lato ci sono provvedimenti legislativi che, ultimamente, puniscono il sistema bancario, dall’altro le banche non hanno strumenti per difendersi dai contenziosi anomali. Il problema, quindi, va discusso allargando il giro d’orizzonte, perché quello che succede oggi è anche figlio di carenze storiche italiane, patrimonializzazione delle aziende in primis».
Basti citare uno studio del 2008; l’8% delle aziende lombarde che fatturava almeno 5 milioni di euro l’anno aveva un patrimonio medio per azienda di 15mila euro. E in queste condizioni se arriva una crisi cosa succede? Torniamo al punto di partenza: dall’azienda, ai suoi dipendenti, ai fornitori, al bilancio delle banche effetto domino.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 15 Marzo 2012
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