I soldi stranieri ci servono come il pane

La Cobra spa e la Cb Ferrari sono state vendute rispettivamente ai tedeschi e ai cinesi perché non c'erano acquirenti italiani

Gibelli i cinesi e la C.B. Ferrari (inserita in galleria)

Quando è stato annunciato l’acquisto della Cobra da parte di un fondo di private equity tedesco, nei commenti dei lettori di Varesenews c’è stata subito una reazione negativa, quasi fosse stata meglio l’alternativa della chiusura dell’azienda. In Italia i soldi stranieri fanno paura indipendendemente dalle intenzioni di chi ce li mette, anche se vanno a risanare perdite non più sostenibili o, come nel caso della Cb Ferrari di Mornago, venduta ai cinesi per 50 milioni di euro, risolvono problemi di successione imprenditoriale.

Quando arrivano gli investimenti stranieri la diffidenza si concentra subito sul destino immediato dell’azienda e dei lavoratori, giustamente. Ma chi compra oggi un’attività manifatturiera che fatica a tirare avanti nel mercato globalizzato, che cosa dovrebbe fare se non tentare di raddrizzarla eliminando i rami secchi che pesano su tutto il resto?
(nella foto: Giuseppe Bianchi ex patron della Cb Ferrari)

«Sugli investimenti stranieri in Italia – spiega Alberto Barcella, presidente di Confindustria Lombardia – c’è un atteggiamento ancora troppo ideologico anche se noi ne abbiamo bisogno perché portano occupazione e innovazione. Pensiamo solo alle multinazionali e al ruolo che svolgono rispetto alla diffusione della conoscenza nel sistema industriale italiano. Invece per le start-up gli investitori preferiscono altre regioni europee per le migliori condizioni di contesto».

In Italia, le giovani aziende innovative, le cosiddette start-up, hanno vita dura perché sono pochi quelli che rischiano i propri capitali, così pochi che quando si parla di esempi di venture-capitalist italiani salta sempre fuori il nome di Elserino Piol, allievo di Adriano Olivetti e pioniere degli investimenti nelle imprese innovative (ricordate l’avventura di Vitaminic e dell’mp3 in italia?).

Una recente ricerca dell’università Liuc di Castellanza, coordinata dalla docente Anna Gervasoni e dedicata, appunto, al venture capital, ha evidenziato che in Italia questo tipo di investimento ha un impatto quasi insignificante. Secondo i dati dell’ European venture capital association (Evca), in Europa, nel periodo tra il 2000 e il 2004, il venture capital ha generato 630 mila nuovi posti di lavoro, mentre in Italia, nello stesso periodo, solo 9.000. Un dato che è coerente se si considera che il rapporto tra quanto viene investito da noi rispetto a quanto viene investito complessivamente in Europa è pari all’1,6%.

Agli italiani non manca la creatività, quanto la propensione al rischio, frenata anche da una cultura imprenditoriale ancora legata al capitalismo famigliare che si autolimita nella crescita. A questo si aggiunge la mancanza di un ecosistema coerente e favorevole per chi voglia investire, soprattutto se viene dall’estero.

«In Italia – conclude Barcella – ci sono pochi investitori perché non siamo attrattivi. Non possiamo offrire un costo dell’energia accettabile, una giustizia civile rapida, una burocrazia efficiente. Se come investitore straniero devo aspettare 12 anni per un’autorizzazione, come è avvenuto per il rigassificatore di Brindisi (fu la British Gas, in quel caso, a rinunciare, ndr), allora è normale preferire la Francia, la Germania o la vicina  Svizzera».

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 29 Marzo 2012
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