Misurare il bambino, o provare ad incontrarlo?

Carlo Petitti, dell'Associazione Spazio Magico di Malnate, invita a riflettere sul nostro modo di "pensare" l'infanzia e di come cambiare prospettiva possa aiutare gli adulti nel loro compito educativo

Gli adulti, da sempre, interpretano l’Infanzia e, in base a questo, decidono ciò che i bambini sono o dovrebbero essere. In coerenza con questa interpretazione organizzano l’infanzia e le vite dei bambini.
Succede da sempre, ma in particolare in questa ultima generazione, nella quale l’organizzazione pervade praticamente tutti gli aspetti della vita di un bambino.
Per quanto riguarda la scuola: organizzazione, progetti, programmazioni derivano dall’idea di bambino che abbiamo, dalla nostra interpretazione dell’infanzia.
Oggi però il mio vissuto personale di attore all’interno del percorso educativo è un vissuto di confusione. Da una parte abbiamo un eccesso di informazioni: riviste, siti internet, trasmissioni televisive ci spiegano continuamente come dovrebbe essere il rapporto coi nostri bambini; dall’altra troviamo una difficoltà sempre maggiore a creare delle sintesi costruttive, che aiutino davvero ad assumersi consapevolmente le responsabilità ed i rischi che sono insiti nel mestiere di educare.
Allora penso che un primo compito che ci possiamo porre sia quello di esplicitare con chiarezza le nostre idee sull’infanzia: serve non solo a essere più consapevoli, ma anche a lavorare insieme, che è una delle risorse più preziose che abbiamo.
Teniamo conto del fatto che ogni teoria "produce" il proprio bambino…
Ricordiamo velocemente alcune delle più importanti teorie di fine 900:
– il bambino “empirico” di J. Locke
– il fanciullo “naturalmente buono" diJ.J. Rousseau
– il bambino “scientificamente attivo” di J. Piaget

Ognuna di queste teorie ha profondamente determinato, e in parte continua a determinare, come si è organizzata la scuola nel corso degli anni, e dunque le scelte che gli adulti fanno per conto dei bambini.
Ma cosa hanno in comune queste teorie? Il bambino non sembra essere partecipe dell’idea che ci si forma di lui: è etero-determinato da una teoria…
Questo ha una ricaduta importante sulla valutazione e sulla gestione dei bambini cosiddetti problematici: sono tali nel momento in cui non rientrano negli schemi che ci siamo dati.
Da qui forse nasce questo bisogno, che è tutto adulto, di misurare il bambino.
Le domande che generalmente la scuola si pone sono: avrà problemi cognitivi? sarà iperattivo? sarà dislessico? Si moltiplicano le richieste di intervento degli specialisti,  si catalogano gli alunni attraverso sigle dovrebbero definire e misurare il problema: ADHD, DSA, BES…
Ma succede frequentemente che, nella vita quotidiana in classe, ci si trovi a vivere una sorta di impotenza operativa, perché spesso, anche dopo averlo catalogato, il disagio non si riduce. Come sostiene Bettelheim: “… è questa la tragedia di tanta parte della psicologia infantile: le sue conclusioni sono corrette e importanti, ma non giovano al bambino. Le scoperte in campo psicologico aiutano l’adulto a capire il bambino secondo i parametri dell’adulto. Ma questa comprensione adulta dei meccanismi della mente di un bambino allarga spesso il solco che li divide: i due sembrano osservare lo stesso fenomeno da punti di vista così diversi che ciascuno vede qualcosa di completamente diverso.”
E se il problema non fosse solo del bambino, ma in qualche modo ci coinvolgesse? E se provassimo a cercare anche altre teorie, a modificare i paradigmi?

Qui la psicomotricità relazionale può davvero darci una mano, anche per uscire dal paradosso proposto da Bettelheim: in una seduta di psicomotricità al bambino viene chiesto di giocare.
Attenzione! La parola giocare può assumere,in diversi contesti, significati molto diversi: credo che sia proprio dal significato che diamo alla parola gioco che si determinano importanti differenze di stile, anche in psicomotricità. Nella psicomotricità relazionale, quando parliamo di gioco, non intendiamo, per intenderci, attività tipo “sacco pieno – sacco vuoto” o “andiamo tutti a 4  zampe come tanti bei cagnolini” o comunque attività ludiche che abbiano l’obiettivo già insito nella consegna che viene proposta.
Giocare, per noi, è quell’attività che il bambino fa quando inventa e costruisce una situazione, un personaggio, attraverso il quale può permettersi di essere ciò che è, o ciò che desidera essere, liberandosi dai “panni” imposti dalla situazione contingente e vestendosi coi panni dalla fantasia.
E, come Andrè Lapierre ha genialmente sperimentato e praticato fin dagli anni 60, attraverso il gioco simbolico il bambino si racconta, esplicita e vive i suoi desideri, anche quelli inconsci. Ma,  soprattutto, può sperimentare un passaggio dal “voler essere” al “poter essere”: ha la possibilità di elaborare la sua situazione di disagio in una situazione di benessere: può sperimentare una relazione “sana” con l’ambiente che lo circonda; emancipandosi dal continuo dover dimostrare qualcosa, è libero di essere finalmente ciò che è.
Oggi più che mai la psicomotricità a scuola deve rifiutarsi di diventare l’ennesimo modo di misurare il bambino, ma deve essere, a mio parere, uno degli strumenti che consentano di accettare consapevolmente la sfida della complessità.
Questo, tra l’altro, si accorda con le più recenti teorie sul bambino, le cosiddette teorie post-moderne: penso ad autori come  Heisemberg, Meltzoff, Stern, e alla Teoria dei Sistemi Complessi. Questi autori ci presentano il bambino come un sistema  vivente  auto-eco organizzato  fin dalla nascita, dotato di una propria coerenza e costantemente impegnato in uno scambio regolativo con l’altro. Un bambino attivo, relazionale; un bambino capace di incidere costruttivamente nella definizione della realtà che lo circonda.
Quali sono le implicazioni di questo nuovo modo di “pensare l’infanzia”?
Cambiano le domande che ci poniamo: non parliamo più del bambino come astrazione, ma di un bambino concreto, da incontrare. Un bambino co-costruttore attivo di conoscenza, di cultura e della propria identità.
Quale ‘metodo’ guida la pratica educativa in questa prospettiva?
Non più la ricerca di un’etichetta (ADHD, DSA, BES) da applicare al disagio del bambino  (l’etichetta è una “piccola etica”) ma la ricerca di un’etica più profonda, più complessa, che è  l’etica (e l’estetica) dell’Incontro.
Parlo di estetica dell’incontro perché è bello, e anche divertente, per chi convive quotidianamente con i bambini, accorgersi di come la loro lettura della realtà sia spesso diversa da ciò che noi tendiamo a dare per scontato.
Accompagnando la mia classe in biblioteca, camminando sul marciapiede, ho detto al bambino che stava di fianco a me: “Attento, c’è una pozzanghera”. Lui ci ha subito pestato dentro un piede, facendo un grande schizzo, e mi ha risposto: “Grazie maestro: se non me lo dicevi tu, questa me la perdevo”!

Carlo Petitti

Associazione "Spazio magico", via Dante 1/A Malnate. Si riceve su appuntamento.
Per informazioni telefonare:
lunedì dalle 8,30 alle 12,30
giovedì  dalle 14,00 alle 18,00
ai numeri 349 2344 384 – 031 942148

www.carlopetitti.it – mail: carlitti@libero.it

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Pubblicato il 10 Febbraio 2014
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