Quelle leggi erano razziste, non razziali
Quest'anno ricorre l'ottantesimo anniversario della promulgazione delle leggi fasciste contro gli ebrei. Il filosofo Fabio Minazzi invita ad usare le parole giuste: «Mi meraviglio che autorevoli giornali parlino ancora di leggi razziali»
Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti. Così diceva Nanni Moretti, alias Michele, nel film “Palombella Rossa“. Quando si parla della persecuzione degli ebrei durante il periodo fascista spesso non si usano le parole giuste. Per esempio, molte volte si usa l’espressione campo di concentramento per indicare i campi di sterminio, oppure il termine olocausto, che significa sacrificio, per indicare la shoah, il termine ebraico che identifica con precisione la distruzione degli ebrei d’Europa da parte dei nazisti. Per i rom quel termine è Porrajmos che nella loro lingua significa “divoramento”. Per gli Armeni, sterminati dai turchi, la parola è Metz Yeghém (il grande male).
(nella foto da destra: Fabio Minazzi e Leonardo Visco Gilardi presidente Aned Milano)Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della promulgazione delle cosiddette leggi razziali, ma anche questa definizione viene contestata. «Mi meraviglio – ha detto Fabio Minazzi, ordinario di filosofia della scienza all’Università dell’Insubria, durante la festa dell’Anpi– che autorevoli giornali e giornalisti parlino ancora di leggi razziali. È una definizione sbagliata e fuorviante perché quelle erano leggi razziste e così vanno chiamate. La questione razziale l’aveva già liquidata Einstein che, entrando negli Usa, alla domanda a quale razza appartenesse rispose: a quella umana».
C’è dunque un problema culturale, secondo Minazzi, in parte dovuto al fatto che quel periodo storico non viene studiato in modo adeguato. «Ancora oggi – ha sottolineato il filosofo – la Resistenza non è entrata nelle scuole come soggetto culturale invece sarebbe importante che la si studiasse in modo approfondito. Kant ha scritto pagine interessanti sulla guerra civile: è l’unica guerra che possiamo accettare poiché dà diritto all’esistenza. Nella guerra civile c’è una moralità in quanto il singolo non viene precettato ma sceglie, si schiera, indipendentemente dall’età, dal sesso e dal ceto. Ecco perché anche le donne hanno potuto partecipare alla Resistenza».
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