Nino, il proiezionista che viveva dentro a un cinema

Partito da Taino, nei duri anni del dopoguerra si trasferì dentro al Cinema 900, in piazzale Loreto. A distanza di sette decenni, la pronipote ha lavorato alla più completa raccolta sui cinema di Milano: una storia affascinante, tra la "settima arte" e la città che cambia

Generico 2018

È la storia di una famiglia affascinata dal cinema, nell’arco di quattro generazioni. Di un bisnonno che dentro a un cinema non solo ha lavorato ma ci ha anche vissuto, di una pronipote che oggi sta lavorando al grande racconto delle sale nella città di Milano.

Il capostipite, Gaetano Ghiringhelli, partì dalle colline da cui già s’intuisce la sponda del lago Maggiore. «Era il mio bisnonno Nino, la sua famiglia viveva a Taino» racconta Eleonora Roaro, artista e curatrice del progetto CineMi. «Quando mia nonna è nata, nel 1941, il mio bisnonno era in già guerra: non l’ha visto fino al 1945». Nino fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato, alla fine della guerra tornò in Italia in modo periglioso, gli ultimi chilometri dalla stazione di Sesto Calende percorsi in bicicletta.

Dopo quegli anni di guerra, la situazione nella zona era tutt’altro che rosea dal punto di vista lavorativo: c’era un Paese da ricostruire, ma la disoccupazione era a livelli altissimi, difficile era il reinserimento prima di tutto di reduci, ex partigiani, deportati. Nino Ghiringhelli partì dunque dal paesino tra le colline diretto a Milano: «Grazie a suo cugino Mario Villa, avvocato milanese, iniziò a lavorare come proiezionista al Cinema 900 di piazzale Loreto, una sala di terza visione in periferia» racconta ancora Eleonora. «Dentro al cinema visse per il primo periodo: aveva una stanza accanto alla cabina di proiezione, con una stufa per far da mangiare, un letto per lui e la moglie Cesarina e uno per  la bimba, mia nonna Marialuisa».

Il patrimonio di case a Milano era esiguo, migliaia di persone vivevano in baracche provvisorie (come quelle di via Marescalchi, ritratte da una pellicola simbolo del periodo, Miracolo a Milano di Vittorio De Sica) o erano ancora sfollate in provincia, in Brianza e nel Varesotto. La guerra aveva devastato e cancellato anche diverse sale milanesi: andarono perduti l’Ambasciatori, lo storico Filodrammatici, il Dal Verme, l’Eden, il Diana, il Vox, il Reale, il Roma, il Modernissimo, il Garibaldi. Furono invece ricostruiti e riaperti l’Odeon, il Corso, l’Ambrosiano, il Supercinema.

Trovata una casa vera, Nino continuò a lavorare nel cinema, nel periodo d’oro della “settima arte” come rito collettivo, prima dell’esordio della televisione. Il duro periodo della ricostruzione aveva bisogno anche di sogni e Milano vide allora una crescita poderosa del numero di sale: dalle 77 del 1946 si passò a 110 già nel 1950, fino ad arrivare alle 125 del 1953. Nino lavorava come proiezionista al Cinema 900 (nella foto d’apertura dell’articolo, nel 1954: in programmazione c’è il film “Siluri umani) e non solo: «Trasportava anche le “pizze” con la pellicola in altre località, andava a Taino, a Bergamo» ricorda ancora Eleonora Roaro (nella foto sotto). «E mia nonna ha vissuto dentro quel cinema, il cinema è diventato il momento fondante della sua vita: raccontava di quando sbirciava le ballerine dell’avanspettacolo», forma d’intrattenimento che spesso conviveva con il cinema e che andò scomparendo negli anni Cinquanta.

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Roaro ha scelto il 1955 come termine massimo per la sua ricerca sui cinema di Milano: è il culmine dell’espansione delle sale cinematografiche a Milano, in quell’anno furono staccati 45 milioni e 665 biglietti, in oltre 54mila giornate di spettacolo. Dal 1956 il numero dei cinema inizia a diminuire, nonostante il parallelo fenomeno dei cinema parrocchiali, le “sale di comunità” che in varie località di provincia sono le uniche sopravvissute (anche in provincia di Varese, con un esempio di grande valore come il Teatro delle Arti a Gallarate e altri come l’Incontro a Besnate).

CineMi ricostruisce il fascino di allora, mettendo al centro il luogo fisico, la sala cinematografica. «Da sempre appassionata di cinema, ho iniziato a cercare in Archivio di Stato e poi nell’archivio del Castello Sforzesco: è stato come aprire un vaso di pandora» racconta ancora Roaro. I lucidi presentati all’ufficio urbanistica del Comune, i disegni di progetto restituiscono l’immagine di sale spesso grandiose a volte firmate da maestri come Mario Cavallè, professsore del Politecnico e autore del fondamentale volume Tecnica delle costruzioni di cinema e teatri. La maggior parte sono andate perdute, alcune già dal tempo della guerra, altre riutilizzate e riplasmate, altre ancora demolite per lasciare posto ad altro: in questo il cinema è un pezzo della autobiografia di Milano, città sempre orientata al futuro, spesso cinica verso il proprio passato ma in questo fedele alla sua intima identità.

Ma di tutti i cinema “vissuti” nelle immagini e nei documenti d’archivio, quali sono quelli che più hanno colpito la ricercatrice? «Moltissimi cinema sono scomparsi senza lasciare traccia. Mi ha emozionato il cinema Astra in Corso Vittorio Emanuele: oggi lo spazio è diventato un negozio di Zara, che già prima dell’ultimo rinnovo dello spazio aveva conservato ingressi e mosaici originali. E poi scoprire il cinema Arlecchino, tra le pochissime monosala sopravvissute, che, come vuole il nome, aveva poltrone di colori diversi».

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 03 Febbraio 2019
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