Mauro della Porta Raffo: “Sono l’ultimo enciclopedista del Settecento ancora vivo”
Il Gran Pignolo ha da poco compiuto 77 anni, ha una memoria da grand savant e un amore sconfinato per la conoscenza
Di lui Ferruccio De Bortoli dice: «Ha visto, letto e ricorda tutto, perfino le cose che devono ancora accadere». Secondo Vittorio Sgarbi «è un poligrafo di sterminata cultura» mentre per Antonio Padellaro è da considerarsi «patrimonio dell’umanità». Sono solo alcuni, seppur autorevoli, tentativi di definire Mauro della Porta Raffo, noto al pubblico anche come il “Gran Pignolo”. Basta però dare un’occhiata alla sua infinita biografia per comprendere che ogni tentativo di definire questo varesino, dalle radici nobili romane – all’anagrafe è Mauro della Porta Rodiani Carrara Raffo – è pressoché inutile. (Mauro della Porta Raffo in uno scatto di Carlo Meazza)
È infatti scrittore, saggista, giornalista, uno dei massimi esperti di elezioni americane e anche abilissimo giocatore professionista di carte. Dotato di una memoria che farebbe impallidire un gran savant, Mauro della Porta Raffo a 77 anni, appena compiuti, sottolinea che il suo altro non è che «amore per la conoscenza», l’unica cosa che non rischia di annoiarlo.
Sgarbi dice che quello di Mauro della Porta Raffo è un pensiero originale, non sempre profondo, ma che riesce a rappresentare quello che ad altri è sfuggito, trovando le cose stravaganti, capricciose e raccontando anche la storia. L’ultima testimonianza dell’enciclopedismo settecentesco che predilige una visione di insieme. Si riconosce in questa descrizione?
«In effetti, sono l’unico enciclopedista del ‘700 ancora vivo. Quando ho una passione compro tutti i libri su quell’argomento e li leggo uno per uno, perché a me interessa la conoscenza. Mi ispiro a Seneca: io voglio imparare. Mi interesso alla cultura dell’uomo in qualsiasi modo sia espressa e poi ho una memoria straordinaria, che per me è come dire che uno ha gli occhi azzurri, tra l’altro io ce li ho. La mia è una visione della cultura globale, non parcellizzata. Sono così».
Lei è sempre diretto, non si asconde, soprattutto quando parla di se stesso nel bene e nel male. Dice di essere stato il peggior studente d’Italia, di non aver mai considerato la scrittura fino ai 49 anni, di essere il più grande esperto di elezioni americane senza parlare una sola parola di inglese e che la modestia e l’umiltà sono gli unici due difetti che non ha.
«Perché è la verità e nascondersi è sbagliato. Io non sono capace di scrivere romanzi, però quando scrivo racconti brevi, scrivo come un dio. Mi vanto di essere l’unico individuo che in Italia non ha scritto nemmeno una poesia. Però sono convinto che mio fratello Silvio sia un grande poeta. Quando aveva appena sette anni tornò a casa da scuola e disse: “Da grande voglio fare il professore e il poeta” ed è quello che ha fatto. Siamo due miracoli».
È diventato famoso in Italia con il soprannome di “Gran Pignolo”. Le pignolerie che pubblicava “Il Foglio” di Giuliano Ferrara erano il terrore di molti giornalisti di cui denunciava gli errori grossolani nei loro articoli. Come iniziò quella stagione?
«Nel 1996 ci furono le elezioni americane e Il Foglio pubblicò una serie di articoli. Leggendoli mi accorsi che c’erano degli errori e così mandai in redazione alcune lettere via fax, segnalandoli. E Giuliano Ferrara, l’allora direttore, le pubblicò. Poi partii in vacanza e poiché il Foglio dove soggiornavo non arrivava, appena tornato a casa l’edicolante di Varese mi consegnò tutti gli arretrati e mi accorsi che non c’erano più le mie lettere. Così mandai a Ferrara un fax dove riepilogavo tutti gli errori fatti e non pubblicati, mettendo in fondo alla lettera una frase che Oscar Wilde rivolse ai giornalisti: “È bene che voi siate ignoranti perché siete a contatto con l’ignoranza della comunità”. Ferrara il giorno dopo pubblicò tutto con un titolo a nove colonne: “Un lettore denuncia la pochezza della stampa italiana”. E in fondo all’articolo c’era la proposta di collaborazione: “Lei merita una rubrica, ci sta?”. Telefonai in redazione e così il 5 settembre 1996 è iniziata la rubrica delle pignolerie. La prima riguardava una notizia che tv e radio avevano dato relativamente alla morte di Isabelle Seanes moglie di Pancho Villa, deceduta 73 anni dopo il marito. Non era la moglie, ma una delle 75 mogli del rivoluzionario messicano che quando arrivava in un villaggio chiedeva di giacere con la ragazza più bella e poi la sposava davanti a un prete, nonostante i precedenti matrimoni. Lo stesso Ferrara riconobbe durante la celebrazione dei 20 anni del quotidiano che le pignolerie furono la cifra giornalistica del Foglio».
A Varese, durante la lunga stagione dei salotti di Mauro della Porta Raffo, ha portato centinaia di ospiti di grande livello: giornalisti, scrittori, politici e personaggi dello spettacolo. Recentemente lo storico Caffè Zamberletti dove si svolgevano gli incontri ha chiuso. Che cosa ha provato?
«Mi è dispiaciuto perché in quel luogo c’era una continuità di pensiero che era iniziata con il Caffè Cavour negli anni Cinquanta, dove andavo con mio padre. Gli interni vellutati, i lumi ai tavolini, i separé e già all’epoca la presenza di personaggi notevoli. L’idea dei salotti fu di Giuseppe Armocida che nel 1999 era assessore alla Cultura. All’epoca c’era un collegamento tra il Comune e il Premio Chiara e Armocida mi chiese se potevo organizzare degli incontri con personaggi legati al premio letterario che avrei invitato io. Quando ci fu la rottura con i responsabili del Premio Chiara, fu ancora Armocida a chiedermi di continuare con i Salotti di Mauro della Porta Raffo che si tenevano a Villa Mirabello. Il primo fu con Vittorio Feltri, poi toccò a Liguori ma per proseguire dovevamo spostarci perché nel salone dovevano fare dei lavori. E così andai da Angela Zamberletti in corso Matteotti che accolse subito questa proposta con grande generosità. Nel 2016, quando ero presidente del comitato per i 200 anni dell’elevazione di Varese al rango di città, abbiamo premiato sedici varesini importanti e tra questi c’era giustamente anche la signora Zamberletti».
Un invito a un salotto di Mdpr era una proposta che non si poteva rifiutare.
«Ho avuto un lungo periodo in cui ero sulla ribalta mediatica per le mie “pignolerie” che avevano un impatto molto forte. D’altronde era un’epoca in cui i giornali avevano ancora un peso. Una volta telefonai a Michele Serra che mi rispose: “È come ricevere una telefonata da Sofia Loren”. Erano persone che leggevano e sapevano. Ci sono stati salotti dove la gente era giù per strada perché non c’erano più posti in sala, per esempio quando è venuto Enrico Mentana. A volte facevi il pienone a volte no. Una volta a Gavirate ho tenuto una conferenza sul futurista Bruno Corra davanti a una sola persona. Da quella volta mi sono detto che bisogna essere sempre pronti a tutto».
Dai suoi ricordi emerge una ricchezza di proposte notevole. Che cosa manca oggi alla cultura della città?
«Manca sicuramente il tempo e poi mancano strutture particolari che una volta esistevano. Non vale solo per Varese, perché la svolta fu nel 1970 con l’attuazione della norma costituzionale che prevedeva l’istituzione delle regioni e il passaggio della competenza relativa a turismo, soggiorno, spettacolo e cura. La struttura turistica italiana, con l’attribuzione della competenza alle Regioni, è stata smantellata perché le aziende autonome per il turismo, pur dipendendo dal ministero, avevano autonomia e nei consigli di amministrazione erano rappresentate anche le parti sociali. Io sono stato direttore dell’azienda autonoma di soggiorno e ho potuto vedere cosa ha fatto mio padre in qualità di direttore. Posso dire che le persone che si occupavano di questo settore lo facevano con grande passione e qualità. Ricordo, ad esempio, Vittorio Pastori, conosciuto come il Vittorione, che è stato con me nel cda dell’azienda autonomia di soggiorno insieme ad altri personaggi straordinari».
Chi avrebbe voluto come ospite dei salotti, ma non fu possibile avere?
«L’unico che doveva venire e non venne mai, fu Mario Monicelli. Un grandissimo regista che con i suoi film ha dato una chiave di lettura della società italiana. Quando lo invitai, mi disse che ci avrebbe pensato, ma a Varese non arrivò mai perché si suicidò. Lui e Dino Risi, altro grande regista, avevano scommesso a chi avrebbe vissuto di più. Vinse Monicelli»
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