Dal divano alla vetta del Campo dei Fiori: l’importanza di essere “in ambiente”
Una bella riflessione d'inizio anno firmata dal "nostro" Giuseppe Geneletti. La salita in montagna può essere un modo per svelare e riscoprire un essere speciale da cui spesso siamo in fuga: noi stessi

Il mio amico Matteo è un barone della montagna. Colto filosofo trombettista, mi ha insegnato il nobile passo cadenzato con cui affrontare ogni ascesa, e non solo. Mi diceva: “Ottima la preparazione in palestra, la corsa al parco e sulla ciclopedonale, gli esercizi cardio, ma poi, a un certo punto, non c’è nulla di meglio dell’essere in ambiente”.
Erano gli anni del Covid e mi stavo preparando alle scalate su tre dei quattro 4 mila italiani. Date le limitazioni di movimento, correvo nottetempo nel corsello dei box, andavo su e giù per le scale del condominio a 9 piani, facendo attenzione a non fare rumore e a non scivolare sui gradini di marmo o slittare sugli zerbini, inciampando nei portaombrelli, camminavo ovunque tutte le volte che potevo. Finite le chiusure, ho iniziato ad andare in “ambiente”. La mia palestra all’aperto è stato il Campo dei Fiori, sopra Varese. Partenza dal Chiostro di Voltorre, arrivo alla Punta di Mezzo, 1215 metri sul livello del mare, e 1000 metri di dislivello dal lago.
Ben prima dell’alba, attraversavo Comerio fino alla frazione Mattello, da dove parte il 312, il sentiero direttissimo che entra nel bosco, lasciando a destra la deviazione per la grotta Remeron, e si inerpica fino al punto più alto e più vicino a Milano di tutta la Lombardia. Un giorno ho trovato la nebbia bagnata e gelata, un altro un sole secco e accecante, un altro ancora pioggia leggera e viscida. Mi sono perso cambiando percorso in discesa e una volta ho deciso di andare oltre fino a Castello Cabiaglio, con ritorno da Gavirate. Ho incontrato cinghiali “al lavoro” nei giardini delle ville alle prime luci del giorno e cervi e caprioli, sorpresi dalla mia presenza.
Una volta ho soccorso un signore impallidito, rimasto solo con il suo sovrappeso su una bicicletta a pedalata assistita e le batterie scariche. Il profumo delle foglie umide smosse e della resina di un abete a cui mi sono aggrappato, mi hanno riempito le narici. Ho ascoltato il mio respiro, il cuore che batte nelle tempie, il sasso che rotola e si ferma, il fringuello in fuga, la poiana stridere in volo, il mormorio delle foglie dei faggi. L’acqua della borraccia mi ha ammorbidito la bocca, arsa dalla fatica della salita. David, Filippo e Alessio sono venuti a farmi compagnia, qualche volta solo per la seconda ascesa della giornata. Ho sbagliato scarponi (quelli per il ghiaccio e i ramponi si rovinano più velocemente sulla roccia). Dimenticato lo zaino e l’orologio contapassi. Rotto un bastoncino incastrato sotto un ramo mentre correvo in discesa.
Tutto questo, e molto altro ancora, è essere in “ambiente”. Affrontare la variabilità del meteo, cogliere le meraviglie e gestire gli imprevisti, essere esposti con tutti i sensi, e in tutti i sensi, all’inatteso. Incontrare ed entrare in relazione, per quanto fugace, con fauna, flora e umanità varia. Soprattutto, svelare e riscoprire un essere speciale da cui spesso siamo in fuga: noi stessi.
In un mondo in cui il virtuale domina il reale, le relazioni si appiattiscono e ipertrofizzano nella rete globale e la solitudine emerge come condizione esistenziale per molti, la metafora dell’essere nell’ambiente montagna può incoraggiarci ad uscire dalle nostre gabbie fisiche e mentali, ad alzarci dai divani della mente, per vivere pienamente ogni esperienza.
“L’esperienza non è quello che accade ad un uomo; è ciò che un uomo fa con quello che gli accade”, Aldous Huxley.
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