Nel quarto album della sua “età dell’oro”, Stevie Wonder diventa più spirituale
A ventiquattro anni aveva già inciso quattordici dischi!

Quarto album della Golden Age di Stevie Wonder, e probabilmente il disco meno famoso dei cinque, forse anche per il titolo scioglilingua per i non anglofoni. Titolo che è di difficile traduzione, ma che rimanda all’episodio che vi avevo già raccontato presentandovi Innervisions: poco dopo l’uscita del disco Stevie ebbe un brutto incidente d’auto che lo mandò in coma per quattro giorni. Questa idea di un prima e un dopo nella sua vita l’aveva già stranamente prevista nel testo di Higher Ground, ed è un po’ il senso del titolo e del disco, in cui una visione più spirituale e personale prende il posto dei commenti sociali, politici e razziali dell’ultimo periodo. Non mancano comunque i pezzi più di facile impatto: su tutti Boogie On Reggae Woman (che in realtà non è né boogie ne reggae ma funk) che continuò la presenza di Stevie nella Top Ten americana ad ogni sua uscita. In un’intervista dichiarò poi che esisteva anche un secondo volume di questo disco, che secondo lui era ancora meglio, ma non vide mai la luce così https://www.varesenews.it/tag/50-anni-fa-la-musica/come un live registrato al Rainbow. Certo che il pensare che un artista arrivato al quattordicesimo album, nel pieno della maturità artistica, avesse appena compiuto ventiquattro anni fa ancora impressione!
Curiosità: nell’unica canzone politica del disco – “You haven’t done nothing”, feroce critica all’amministrazione Nixon – ai cori DooWop ci sono i Jackson 5 con Michael Jackson, allora una boy band a tutti gli effetti, che Stevie chiama addirittura con un “Jackson 5, join along with me, say”.
La rubrica 50 anni fa la musica
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