Trump parla alla pancia di un’America che si sente tradita: la prima guerra commerciale dell’era dei social media
Bella l'analisi, sì: ma che fare sul piano economico? Gli investimenti? Tre consigli pratici, senza panico: evitare scelte emotive, diversificare, parlare con chi ne sa. Cos'è successo dall'altra parte dell'Atlantico

“Tu che te ne intendi di economia, dimmi cosa faccio adesso coi miei risparmi?”. Me lo ha chiesto ieri la mia farmacista, tra una chiacchiera e l’altra al banco, con un tono mezzo ironico ma non troppo.
Poche ore dopo, un’amica che lavora in un’azienda del Varesotto, produce al 90% per gli Stati Uniti, ma importa dagli USA la maggior parte delle materie prime e semilavorati, mi ha scritto preoccupata: “E adesso che succede?”. In famiglia, intanto, qualcuno mi chiede: “Ma è vero che bisogna mettere i soldi nelle banche svizzere?”. Domande vere, quotidiane, che arrivano dopo una settimana in cui Trump ha annunciato dazi fino al 50% su quasi tutti i beni importati, innescando turbolenze nei mercati globali. E la sensazione, anche qui da noi, è che qualcosa si stia incrinando.
Quando un dazio diventa una frattura. Ho vissuto per sette anni nel cuore del Midwest, in Michigan. Un’America diversa da quella delle metropoli costiere. Fatta di piccole comunità, famiglie operaie, bandiere americane e un profondo senso di appartenenza. Leggendo un recente reportage della BBC da Delta, Ohio, un villaggio di 3.300 abitanti a sud di Detroit, da sempre la capitale del settore auto americano, mi è tornato tutto alla mente. Lì, i dazi annunciati da Donald Trump non sono visti come una minaccia, ma come un’opportunità. Nonostante il rischio di inflazione e caos nei mercati globali, molti abitanti li sostengono convintamente: “A volte bisogna attraversare il fuoco per arrivare dall’altra parte”, dice Mary, proprietaria di una piccola confetteria. È disposta a pagare di più, se questo significa riportare lavoro in America. Come molti, non compra più jeans Levi’s da quando ha saputo che li producono all’estero. È qui che l’economia si intreccia con l’identità.
Ed è qui che, per capirci davvero qualcosa, bisogna fermarsi. Anche se sono passate tante lune dalla mia laurea alla Bocconi e dal master all’INSEAD, ricordo bene la teoria del vantaggio comparato delle nazioni di David Ricardo. Nata nel 1817, è la pietra angolare della globalizzazione: ogni Paese dovrebbe specializzarsi in ciò che sa fare meglio, per risorse naturali, competenze, tecnologie, e poi commerciare con gli altri. Il mondo, così, massimizza il benessere collettivo. È un modello elegante, razionale, dimostrabile. L’esempio classico è questo: anche se gli Stati Uniti sono in grado di costruire buone automobili e anche buoni chip, è meglio che si concentrino su ciò in cui sono eccellenti, cioè l’innovazione tecnologica, i software, i servizi finanziari, e lascino produrre le auto a chi lo fa in modo più efficiente, come la Cina o il Messico. In questo modo, tutti ci guadagnano: gli USA importano auto a buon prezzo e esportano valore ad alta intensità di conoscenza.
Ma quando vado a trovare un imprenditore di Brebbia che ha dovuto delocalizzare parte della produzione in Serbia perché non riusciva più a sostenere i costi energetici e logistici, e che ogni giorno cerca di spiegare ai suoi dipendenti rimasti perché ha scelto di tenere lo stabilimento in Italia, mi accorgo che non basta. Quella scelta non è stata solo economica. È stata anche identitaria. Per lui, produrre a Brebbia significa restare parte di una comunità, dare lavoro alle famiglie che conosce per nome, partecipare alla vita del territorio. Il prezzo che paga sui margini è il dazio silenzioso di un’appartenenza.
E allora capisco meglio anche cosa accade in America. Perché anche lì, sotto le logiche di mercato, sotto i numeri dei bilanci, ci sono persone che non vogliono sentirsi sostituibili, sacrificabili, globali a prescindere. Se il vantaggio comparato è la logica, l’identità è l’emozione. E nei momenti di crisi, l’emozione guida le scelte politiche. Anche quelle più irrazionali. Eppure, in questa America, il modello non funziona più. O meglio: non viene più percepito come funzionante. Donald Trump ha fatto qualcosa che va oltre l’economia. Ha rovesciato quel paradigma con un messaggio dirompente: non importa cosa produciamo meglio, importa che non ci stiano fregando. Non c’è più cooperazione tra partner, ma una conta tra vincitori e perdenti. E se l’America ha un disavanzo commerciale, vuol dire che ha perso. La Casa Bianca ha costruito i dazi su una logica brutale: ogni surplus commerciale verso gli Stati Uniti è di per sé una prova di “imbroglio”, da colpire con una tariffa “reciproca”. Il modello per calcolare il dazio? Non una valutazione delle barriere reali al commercio, ma una semplice divisione: il deficit americano diviso per le importazioni da quel Paese. Una formula tanto semplice quanto assurda. Non tiene conto di alcuna regola dell’economia internazionale. Non distingue tra paesi ricchi e poveri, tra colossi industriali e isole abitate solo da pinguini. L’unico criterio è l’ammontare del disavanzo. E c’è un dettaglio che dice tutto: il surplus americano nei servizi, che ammonta a 280 miliardi di dollari all’anno, è stato completamente escluso dai calcoli.
Come se la finanza, la tecnologia, il cinema, l’intrattenimento, la consulenza, l’ingegneria non contassero. Come se esportare Facebook, Netflix, licenze Microsoft e Wall Street non fosse commercio. Un’omissione strategica, certo. Ma anche un indizio: il dibattito non è più economico. È ideologico. E identitario.
Ma cosa ci dice davvero questa svolta? Che il mito del libero commercio ha fallito sul piano sociale. Nonostante Wall Street, Silicon Valley e i grandi marchi americani abbiano prosperato, intere regioni, il Midwest, il Rust Belt, hanno pagato il prezzo. Come ha dimostrato l’economista David Autor del MIT, il “China shock”, l’impatto dell’ingresso della Cina nel WTO nel 2001, ha distrutto oltre 2 milioni di posti di lavoro americani. Una perdita geograficamente concentrata e socialmente devastante. Mentre i consumatori guadagnavano in potere d’acquisto, gli operai perdevano stabilità, identità, futuro. È da qui che nasce la frattura. E da qui anche il consenso a misure economiche che, agli occhi degli analisti, sembrano assurde o autolesioniste.
Perché quando la redistribuzione non arriva, arriva il rancore. Questa è la prima guerra commerciale dell’era dei social media. Non si combatte più a colpi di tabelle WTO o di diplomazia multilaterale, ma di storytelling. La narrazione è più potente dell’analisi. Trump parla alla pancia di un’America che si sente tradita. E anche chi dubita di lui, come Louise, un’altra abitante di Delta, ammette: “Gli altri non avrebbero fatto nulla. Almeno lui ci prova.” Nel frattempo, i grandi colossi americani tremano. Non solo per le tariffe in sé, ma per l’effetto domino sulla reputazione globale. Marchi che hanno costruito imperi su supply chain iper-efficienti e sull’immagine aspirazionale del lifestyle americano rischiano oggi di diventare bersagli di boicottaggi, ritorsioni, sfiducia. È il boomerang del protezionismo.
E qui da noi? Chi lavora con o per gli Stati Uniti si sta facendo domande serie. Le imprese del Varesotto esportano, ma spesso anche importano tecnologie o componenti da oltre Atlantico. Alcune aziende rischiano di vedere aumentare i costi, ritardare le consegne, perdere competitività. I piccoli risparmiatori vedono la Borsa oscillare e si chiedono se i loro fondi siano al sicuro. Altri temono l’inflazione, la recessione, il ritorno del “bene rifugio”.
E allora: che fare? Tre consigli pratici, senza panico.
Evitare scelte emotive. Portare i soldi in Svizzera per paura dei dazi è un gesto irrazionale. Il sistema bancario europeo è regolato, i risparmi sono garantiti. Non siamo nel 2008.
Diversificare. Chi ha esposizioni verso gli Stati Uniti, come impresa o come investitore, può considerare mercati alternativi, nuove rotte di approvvigionamento, strategie di copertura. Mai concentrare tutto in un solo mercato.
Parlare con chi ne sa. Non fidatevi degli allarmi da bar, talk show o chat. Parlate con il vostro consulente finanziario, con il responsabile acquisti, con chi segue la vostra supply chain. Le soluzioni si trovano, ma servono testa fredda e buon senso.
La vera lezione. Trump ha fatto saltare il tavolo della globalizzazione. Non con una teoria, ma con una narrazione potente: l’America ha perso, e ora vuole riprendersi tutto. E anche se i numeri dicono altro, il boom dei servizi, il dominio tecnologico, i profitti da record, per milioni di cittadini americani quella verità non conta. Conta sentirsi traditi. E avere qualcuno che, almeno, ci prova a cambiare le cose.
La nostra sfida, qui in Italia, è non sottovalutare mai le ferite sociali. Perché quando una parte del paese si sente dimenticata, alla fine qualcuno arriva, con un dazio, un tweet o una bandiera. E cambia le regole per tutti.
“L’illusione di avere capito il passato alimenta l’ulteriore illusione di poter prevedere e controllare il futuro. Queste illusioni sono confortanti. Riducono l’ansia che proveremmo se permettessimo a noi stessi di riconoscere in pieno le incertezze dell’esistenza”, Daniel Kahneman.
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