Riccardo Muti e la sua “Orchestra Giovanile Luigi Cherubini” incantano Piacenza
Il Maestro ha diretto i giovani talenti nell'elegante cornice del Teatro Municipale regalando un concerto travolgente

Certe sere la musica non la si ascolta, la si accoglie. La si lascia entrare dentro di noi come una luce antica, come un respiro che non è il nostro, ma che per una sera ci appartiene. È accaduto con il ritorno a Piacenza di Riccardo Muti, che con tutta la sua potenza artistica e spirituale è salito sul podio del Teatro Municipale, dirigendo con sovrana maestria un ensemble di straordinari talenti musicali: l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, da lui stesso fondata vent’anni fa. Un concerto travolgente, capace di sospendere il tempo, cancellarlo, sino a renderlo irrilevante.
Un silenzio fitto, denso, quasi vibrante ha avvolto le mille persone che gremivano il Teatro Municipale di Piacenza: un’attesa quasi liturgica, spezzata solo dalle prime, soavi e solenni note evocate dal gesto leggero della bacchetta del Maestro. Con movimenti essenziali, netti, scolpiti nel vuoto, Muti ha dato vita a un fiume di suoni, che ha avvolto la sala come una marea di bellezza.
Lo sguardo fermo, assoluto, ieratico, come quello di un sacerdote che officia un rito antico. La sua interpretazione è stata una liturgia del suono, capace di trasformare la musica in memoria, visione, destino. Con la sua arte ha infuso vita agli archi, ai fiati, alle percussioni, guidando con mano decisa i giovanissimi musicisti della sua orchestra. Un’orchestra che non è semplice formazione, ma vera e propria fucina di talenti, che da due decenni seleziona e forma i migliori musicisti, offrendo loro l’opportunità irripetibile di apprendere questa incredibile arte. Ma il Maestro non si è limitato a dirigere. Ogni gesto, ogni espressione del volto, era una lezione vivente, un testamento silenzioso, ma soprattutto un atto d’amore per l’arte e per i suoi allievi.
Tra le sfide più ardue della serata per chi ascoltava c’era quella di scegliere: seguire con gli occhi incantati la danza delle mani del Maestro ed il movimento delle dita dei musicisti sugli strumenti, o chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare sotto la magnifica volta del teatro, lambendo con la mente l’Apollo e le Muse, affresco immortale di Giuseppe Badiaschi, sospinti dalla forza evocativa delle note.
Il concerto si è aperto con un impeto quasi eroico, con l’Ouverture Coriolano di Beethoven. Una pagina densa di contrasti, dove tensione e forza, dignità e conflitto si scontrano e si abbracciano fondendosi. Ispirata alla tragedia di Heinrich Joseph von Collin, racconta di Gneo Marcio Coriolano cantando in note il suo tormento interiore, che Muti fa vibrare con impareggiabile profondità.
A seguire, il Concerto per violino K218 di Mozart, affidato al violino del giovanissimo e già straordinario Giuseppe Gibboni. Un incontro perfetto, quasi predestinato: Mozart lo compose a 19 anni, Gibboni oggi ne incarna la freschezza, il fuoco e la grazia. Le sue dita, leggere e sicure, hanno regalato note capaci di passare dal cristallo alla carne, dalla leggerezza alla vertigine emotiva, in un dialogo incantato tra epoche e anime.
Il gran finale è stato affidato a quella che Richard Wagner definì “l’apoteosi della danza”: la Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92 di Beethoven. L’interpretazione è stata una cavalcata ritmica e trascinante, che ha sollevato il pubblico dalla sedia, letteralmente! Nell’Allegro conclusivo, l’energia sprigionata era tale che l’applauso finale, frenato fino all’ultimo con devozione, è esploso come un’onda incontenibile.
Un concerto che ha varcato i confini della musica stessa. I gesti di Muti, minimi e solenni, hanno detto più delle parole. Quel silenzio diventava suono, e poi quegli sguardi lanciati ai giovani strumentisti sembravano dire: «Credo in voi. Credo nella bellezza che potete donare al mondo, fatelo con le note».
E dentro quel gesto c’era tutto di Muti: Napoli e Molfetta, la Scala e Salisburgo, ma anche Delianuova, il paesino calabrese dove da giovane diresse una banda musicale con lo stesso sacro rispetto riservato a Vienna. Perché la musica, per lui, è sempre stata bene comune. È sempre stata un atto d’amore.
Quando l’ultima nota si è spenta, non è calato il silenzio. È rimasta una gratitudine profonda, muta, incisa nell’anima. Quella che si prova solo davanti alla bellezza vera. Quella che non consola: scuote. Che non distrae: chiama.
Certe sere, la musica non si dimentica. Si custodisce.
Come si custodisce un amore raro, una verità conquistata, un istante che ci ha cambiati per sempre.
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