“Non basta dire bio”: Anna Prandoni smonta i miti del cibo comodo
A Materia l’autrice ha presentato Il senso buono, un saggio che sfida i luoghi comuni dell’enogastronomia, dai trend globali all’ipocrisia del “mangiar bene”

A Materia Spazio Libero Anna Prandoni in dialogo con Stefania Radman e Davide Aviano ha presentato, mercoledì 4 giugno, il suo saggio Il senso buono. Una sera di confronto su falsi miti e mondo dell’enogastronomia visto dai suoi autori.
«È stato il direttore de Linkiesta a suggerirmi di scrivere un libro che riassumesse tutto ciò che ho capito in vent’anni di esperienza nel mondo della gastronomia». Così Anna Prandoni racconta la genesi di Il senso buono, un manifesto sul settore enogastronomico. Prandoni non è nuova alla scrittura: nel corso della sua carriera ha già pubblicato libri, soprattutto ricettari. Eppure, proprio lei ammette che questo libro è stato il più complesso da realizzare. «Scrivere un ricettario non è così semplice», sottolinea. «Ma questo saggio si è rivelato più difficile del previsto». Le prime settanta pagine sono state completamente riscritte, e anche il titolo originario – Più cibo meno food – è stato messo da parte.
Quel titolo, però, ha un’origine precisa e racconta molto dell’essenza dell’autrice. «Nel 2015, quando venni nominata ambasciatrice per Expo, era fondamentale avere un hashtag. Il mio fu proprio #piùcibomenofood. Mi è rimasto addosso, perché mi rappresentava molto».
Il legame tra lo slogan e l’autrice è dimostrato anche dal sommario del libro, che «è pieno di “più qualcosa” e di “meno qualcos’altro”»: una struttura che riflette un’evoluzione mai rigida. Un invito a guardare al cibo non come semplice oggetto di intrattenimento o consumo, ma come un tema cruciale, con implicazioni sociali, etiche e ambientali.
Cibo e spettacolo: un legame da rompere
«Abbandoniamo questa idea di food come parte dell’intrattenimento: il cibo è troppo serio perché sia solo spettacolo». Per Anna Prandoni, il cibo non può essere un semplice pretesto scenico. «Non deve diventare un “di cui” per fare spettacolo», aggiunge, criticando il modo in cui, anche in televisione, il cibo viene spesso trattato con superficialità. «In certi programmi, anche molto seguiti, ciò che si mangiava non veniva valorizzato: era un’aberrazione».
Il riferimento è anche a trasmissioni come Masterchef, che hanno segnato un’epoca. Ma oggi, riconosce l’autrice, le cose sono cambiate. «In dieci anni è cambiato tutto: io, professionalmente, ma anche l’intero universo dell’enogastronomia». Un punto di svolta è stato rappresentato dalla pandemia: «Quei due anni hanno ribaltato la scena e, fortunatamente, la nostra consapevolezza sul cibo è molto migliorata».
Consumo consapevole: il prezzo nascosto del cibo a buon mercato
«Mi faccio la pasta, verso sopra il pomodoro, accendo la televisione… e intanto, da qualche parte, un bracciante muore. Eppure quella lattina di pomodoro l’ho pagata solo 99 centesimi»: Anna Prandoni parte da un gesto quotidiano per raccontare una verità scomoda. «Non è morto per colpa mia», precisa, «ma forse, se fossimo consumatori un po’ più consapevoli, potremmo contribuire a cambiare le cose».
La questione, per lei, è tutta qui: «spendere un po’ di più per ciò che diventa parte di noi significa anche sostenere filiere più giuste, ambienti più vivibili e lavoratori più tutelati». Prandoni porta un esempio concreto: la Valle del Belice, oggi in gran parte abbandonata. «Non vale più la pena coltivare gli ulivi, perché non paghiamo abbastanza l’olio. Quel posto non è più un luogo accogliente, dove le persone vivono e possono trovare un lavoro: è così che muoiono i paesi».
Le nostre scelte alimentari, sottolinea, hanno conseguenze a cascata. «Lo so, è un discorso che può sembrare elitario. Ma se facciamo bene i conti, e proviamo davvero a ripensare il nostro bilancio familiare, possiamo permetterci tutti un piccolo upgrade».
Le mode che ci ammazzano
«Sono sempre le mode che ci ammazzano». Con questa affermazione Prandoni invita a riflettere su quanto le tendenze alimentari, spesso accolte con entusiasmo, possano nascondere conseguenze gravi e invisibili. Un esempio emblematico è quello della quinoa, diventata simbolo di alimentazione sana e consapevole, ma non senza contraddizioni.
«Là dove nasce la quinoa – racconta – per darla a noi, che siamo molto più ricchi, vengono espropriati terreni, si interrompe la rotazione agricola e i campi vengono sfruttati fino a diventare inariditi. Per riportarli a uno stato fertile servono secoli». Il prezzo per gli agricoltori locali è altissimo: investono in attrezzature per rispondere alla domanda occidentale, spesso indebitandosi per comprare trattori o macchinari. Ma quando la moda passa – e le mode passano sempre – restano con i debiti, senza più un mercato stabile.
E poi c’è la sostenibilità, solo apparente: «La quinoa viaggia in aereo per arrivare fino a noi. Quanto c’è di sostenibile in tutto questo?».
Tradizione e innovazione: mettere in discussione le certezze
«Non voglio dire che è tutto sbagliato, ma proviamo almeno a mettere in discussione alcune cose che per noi sembrano granitiche». Prandoni invita ad adottare uno sguardo più critico e consapevole sulle nostre abitudini alimentari. Il mondo cambia in fretta, e con esso cambiano anche i nostri riferimenti: «Il mondo intorno a noi sta evolvendo a una velocità incredibile, e questi cambiamenti incidono su tutto, anche sulle nostre scelte a tavola».
L’autrice sfida alcune convinzioni consolidate, come l’idea che basti “comprare biologico” per sentirsi a posto con la coscienza. «Oggi dire “compro bio e ho fatto il mio” non basta più. Non è detto che sia la scelta migliore che possiamo fare. Nessuno studio, per esempio, prova che una mela biologica faccia meglio di una convenzionale».
Questa attitudine, ammette, può risultare scomoda: «A volte mi sento come quella che dice ai bambini che Babbo Natale non esiste. Smonto un po’ di certezze, ma è necessario». Anche la tradizione, osserva, andrebbe riletta con occhio più laico: «Non è così tanto tradizionale come pensiamo. Gran parte della cucina italiana come la conosciamo oggi è figlia del dopoguerra. Senza il pomodoro, per esempio, non avremmo nemmeno la cucina italiana – e il pomodoro non è neanche un prodotto originario dell’Italia. Facciamocene una ragione».
E ancora: «il parmigiano “come da tradizione”, spesso celebrato, oggi viene prodotto solo in Wisconsin. «Tanti mi dicono: “Dobbiamo difendere la cucina italiana!”. Ma da chi? Chi ce la vuole rubare? Ai francesi non credo interessi. Sono solo frasi fatte, un po’ gastronazionaliste».
In un momento storico segnato da incertezza e instabilità, è naturale aggrapparsi a piccole certezze quotidiane. Ma Prandoni preferisce coltivare il dubbio. Non a caso, conclude con un sorriso: «Dipende è la mia parola preferita. Perché in un mondo complesso, le certezze granitiche fondate su pochi dati fanno più danni che bene».
Guida Michelin: non critica, comfort zone
Prandoni sfata i miti della cucina italiana e ci ricorda che la Guida Michelin, nata nel 1901 grazie a due fratelli — uno impegnato nella produzione di pneumatici e l’altro nella copisteria — non è mai stata concepita come una semplice classifica dei migliori ristoranti. La guida nasce come uno strumento operativo pensato per segnalare luoghi remoti, stampata a basso costo da uno dei fratelli per poter regalare il libro al pubblico, con l’obiettivo principale di far vendere più pneumatici all’altro.
Ancora oggi, lo scopo della guida resta quello di presentare i “preferiti” del lettore ideale: quei ristoranti e hotel capaci di offrire un’esperienza autentica e piacevole. Non è una critica gastronomica, ma una guida calibrata sulle esigenze di un lettore che vuole vivere un viaggio senza scossoni, alla scoperta di posti di qualità.
«Nel tempo, siamo stati noi — giornalisti, comunicatori del settore, chef — a trasformarla, dandole una voce e un’identità più forte» spiega Prandoni.
L’autrice si trova a confrontarsi con la celebre classifica dei 50 migliori ristoranti al mondo, la The World’s 50 Best Restaurants. «Non lavorano per categoria» e, rivolgendosi al pubblico, domanda: «Quanti tipi di ristoranti conoscete? Possiamo davvero dire che sono tutti semplicemente ‘ristoranti’?» Approfondisce il concetto con un paragone chiaro: «Il Milan non gioca contro la Pro Patria, così come il kebabbaro non può competere con Cracco.»
Inclusività nel mondo enogastronomico
«Il mondo enogastronomico dovrebbe concentrarsi di più sull’inclusività. Oggi, soprattutto nel settore del vino, troppe persone si sentono allontanate perché il linguaggio utilizzato è spesso troppo tecnico o ostico. Il prodotto va raccontato in modo più semplice, ma al tempo stesso poetico e coinvolgente, così da essere accessibile a tutti.»
«Spesso si pensa che per capire di vino o enogastronomia bisogna diventare sommelier, oppure non capirci nulla: non esiste una via di mezzo. È invece necessario trovare un modo per avvicinare tutti, senza escludere chi è meno esperto, e fare in modo che il piacere e la conoscenza del buon cibo e del buon vino siano davvero alla portata di chiunque.»
Il cibo è un lusso accessibile
«Il cibo è un lusso accessibile». Anna Prandoni utilizza un paragone semplice ma efficace per spiegare questo concetto: «Possiamo andare al lavoro con una Panda o con una Porsche, e chi scende dalla Porsche non si lamenta perché è troppo costosa. Il cibo, invece, è diverso dalle macchine: è un lusso che possiamo permetterci tutti una volta nella vita, e di cui possiamo lamentarci. La Porsche invece rimane inaccessibile».
L’autrice punta poi il dito sull’insostenibilità della ristorazione stellata, e sul costo di certe esperienze gastronomiche. «Diciotto euro per una pizza a Milano, in Galleria, da Cracco, e tutto ciò che ne consegue, sono in fondo pochi». Questi prezzi, per quanto alti, devono essere letti nel contesto del libero mercato, dove «serve un po’ di razionalità».
Prandoni ricorda inoltre che il lavoro in sala non è un semplice “ripiego”. «Spesso si lavorava un po’ per caso come cameriere, magari durante l’università per pagarsi gli studi. Ma oggi sappiamo che è una professione a tutti gli effetti». E proprio la professionalità incide sul prezzo finale: «Lo scontrino non è solo un costo, ma il risultato di un’attività economica complessa».
Andare al ristorante: divertimento e consapevolezza
«Andare al ristorante non deve essere un momento per giudicare, ma per divertirsi e mangiare bene. L’unica domanda che dovremmo porci è: “Ci tornerò ancora o non ci metterò più piede?» Il fenomeno dell’“all you can eat” è, secondo Prandoni, “sbagliato filosoficamente”. «Non si tratta di riempirsi a dismisura, mangiando tanto e spendendo poco. Se pagate poco, probabilmente c’è una fregatura da qualche parte: qualcuno o qualcosa viene sfruttato».
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