Tra poesia visiva e critica sociale: alla galleria Boragno di Busto i collage stratificati di Alice Zanchi
Con la mostra Unsaid, aperta fino a domenica 30 novembre, la copywriter e artista visiva rivela le contraddizioni di un linguaggio pubblicitario sempre più invasivo e il potere dell’arte nel restituirci uno sguardo libero
Se il Natale 2022 profumava di zucchero a velo e arrivava dentro una scatola rosa con un occhio azzurro stampato sopra, il 2023 si è chiuso con un’onda lunga di polemiche. Il “Pandoro Gate” – l’indagine sul pandoro brandizzato da Chiara Ferragni – ha riportato al centro del dibattito pubblico i diritti dei consumatori, i confini della comunicazione e il ruolo ambiguo della pubblicità contemporanea.
Oggi, l’influencer imputata per truffa aggravata si dichiara innocente: per alcuni un inganno, per altri un errore di comunicazione. In ogni caso, un precedente che apre una riflessione necessaria sulla responsabilità dei brand e sull’uso del linguaggio pubblicitario. In questo scenario si muove Alice Zanchi, copywriter e creativa pubblicitaria, ex addetta marketing per Hello Kitty e oggi artista che porta in mostra lavori critici nei confronti del consumismo.
Ama la pubblicità, ci sguazza dentro con divertimento e consapevolezza, ma ne denuncia gli eccessi.
«La pubblicità fa parte di me da sempre», racconta. «Il mio primo ricordo è lo spot del Cucciolone dell’87. Era un mondo diverso: la pubblicità informava, segnalava un’attività, presentava un prodotto. Oggi invece mi dispiace vedere cosa è diventata: da informativa si è trasformata in uno strumento violento, accattivante, che spesso svilisce il consumatore».
Per Zanchi, la trasformazione non riguarda solo i contenuti, ma la presenza stessa della pubblicità nelle nostre vite. Un tempo compariva tra un film e l’altro, oggi si espande in ogni spazio libero, invade, interrompe, obbliga.
«I pre rolls di YouTube sono estremamente violenti: devo attendere prima di poter vedere ciò che voglio. La pubblicità non si limita più a parlare, impone. Non mira solo a venderti qualcosa, ma a farti sentire inadeguato in modo da poterti offrire una soluzione». Il punto, precisa, non è la profilazione in sé. Anzi, per lei non va demonizzata: «Sono contenta se mi arriva un messaggio che davvero parla a me».

Ciò che considera pericoloso è la modalità con cui questi messaggi vengono comunicati, la loro costruzione retorica, la ripetizione martellante, l’usura emotiva. È qui che il linguaggio pubblicitario diventa un caregiver distorto: accudisce mentre manipola, accompagna mentre spinge, ascolta mentre guida verso bisogni che non esistono. Da qui la critica ai prodotti e ai mercati che creano esigenze fittizie.
Il caso Gillette, il business asiatico delle creme sbiancanti, i profumi venduti come seduzioni epiche o le auto raccontate come simboli di potere non sono, a suo avviso, pubblicità nel senso più nobile del termine. Non rispondono a un bisogno reale, ma costruiscono un’identità da acquistare, uno status da inseguire. «Per propinarti qualcosa ti faccio sentire incompleto. Non c’è alcuna necessità. Solo la promessa di essere accettato».

Eppure, nonostante questo sguardo critico, Zanchi continua a definire la pubblicità un linguaggio affascinante, la capacità rara di condensare un messaggio in un’immagine. «È arte pura. Solo che l’uomo, tutto ciò che tocca, spesso lo usa per il male». Nella sua attività artistica questa ambivalenza diventa un motore creativo. I suoi collage nascono da frammenti di parole o immagini: vecchi giornali, riviste, enciclopedie mediche, numeri di Urania, fotografie dimenticate.
L’archivio è immenso e in continuo aggiornamento, sia fisico sia digitale. Scansiona, sovrappone, sfrutta persino la trasparenza della carta, lasciando che siano le immagini a incontrarsi e a generare un significato nuovo. Le sue opere parlano di emotività, di relazioni, di memoria. Non cercano di spiegarci qualcosa, ma di lasciarci sentire.
«Non è importante ciò che voglio dire io, conta quello che arriva a te».Nelle sue mostre appare una critica sottile all’immaginario pubblicitario, alla rappresentazione standardizzata dei corpi, alla mancanza di diversità che i vintage stessi – pur pieni di fascino – portano con sé. I corpi che ritrova nei vecchi materiali non sono neutri, ma sopra la media, uniformi.
Oggi queste riflessioni convergono nella mostra Unsaid alla Galleria Boragno di Busto, visitabile dal giovedì al sabato dalle 15.30 alle 19 e la domenica dalle 10 alle 13 e dalle 15.30 alle 19, fino a domenica 30 novembre.
Dalla scatola rosa alla critica artistica, dal rebranding agli errori di comunicazione, il viaggio di questi ultimi anni ci mostra una cosa con chiarezza: se la pubblicità non può prescindere dal mondo che la circonda, l’arte può ancora mostrarci come guardarlo senza esserne inghiottiti.
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