Da Prato a Pordenone vinse la rabbia del fare. Identità e futuro dei distretti industriali italiani
La lezione di Federico Visconti alla Liuc svela l’evoluzione dei distretti industriali italiani, tra radici culturali, resilienza economica e nuovi collanti capaci di trasformare territori in ecosistemi competitivi
Da Prato a Pordenone «vinse la rabbia del fare». È sulla parola “fare” che bisogna concentrarsi. Una parola che non solo restituisce l’energia originaria dei territori produttivi italiani, ma invita a riconoscere, da nord a sud del Belpaese, l’esistenza di un genius loci nei distretti industriali.
È in questo intreccio di lavoro, identità e memoria collettiva che affonda il modello distrettuale, la cui genealogia teorica passa attraverso le intuizioni di Alfred Marshall negli anni Trenta e la rilettura innovativa di Giacomo Becattini negli Settanta del secolo scorso.
Marshall, osservando i distretti tessili delle Midlands all’inizio del Novecento, comprese che i vantaggi della produzione su larga scala potevano emergere anche dalla concentrazione territoriale di molti piccoli produttori specializzati, immersi in un’“industrial atmosphere” fatta di competenze e scambi continui.
Becattini avrebbe poi trasformato queste intuizioni in una teoria del distretto come comunità produttiva, dove storia locale, saperi condivisi e relazioni economiche formano un ecosistema coerente che “tiene insieme” imprese e persone.
LA TERZA ITALIA
Questa chiave interpretativa ha guidato la lectio magistralis che il professor Federico Visconti, già rettore della Liuc e oggi direttore del Centro Civis, ha tenuto nell’ambito della XXIV Settimana della Cultura d’Impresa promossa da Museimpresa e Confindustria. L’evento, arricchito dalla collaborazione con l’Archivio del Cinema Industriale, diretto dal professor Daniele Pozzi, ha ribadito l’impegno della Liuc nella valorizzazione della cultura d’impresa, sostenuta anche dalla donazione di un imprenditore destinata allo studio delle Pmi italiane.
Visconti ha ricostruito il passaggio dal modello marshalliano alle forme italiane di distretto, che si affermano nel dopoguerra. Il censimento industriale del 1971 mostrò il declino delle grandi fabbriche del Nord-Ovest e la crescita inattesa di territori periferici come Veneto, Marche, Toscana e Friuli Venezia Giulia, ovvero la “terza Italia”, capace di trasformare tradizioni artigiane, capitale sociale e dinamiche demografiche vivaci in sviluppo industriale.
LA PROVINCIA OPEROSA
Il filmato del 1973 dedicato alla provincia di Pordenone, riproposto in aula, ha reso visibile questa trasformazione: mani di artigiani, materiali semplici lavorati con sapienza, una cultura della fatica che diventa competenza diffusa.
Le attività produttive, ceramica, meccanica, gomma, mobili e coltelli (nel distretto di Maniago), prosperavano su piccola scala, sostenute dal boom edilizio e da un ecosistema istituzionale fatto di scuole tecniche, fiere e infrastrutture. In questo contesto il distretto emerge come “contesto economico facilitante”, dove l’intrapresa diventa comportamento naturale.
I DISTRETTI INDUSTRIALI OGGI
La domanda di fondo della lectio riguarda l’attualità del modello distrettuale. Il Rapporto Intesa Sanpaolo 2024 conferma la capacità delle imprese distrettuali di reagire alle crisi: fatturati oltre i livelli pre-pandemia, redditività solida, patrimonializzazione in crescita, investimenti in efficienza ed energia. Restano però criticità legate alla digitalizzazione incompleta, alla transizione green e alla difficoltà nel reperire manodopera qualificata. A fronte di queste sfide emergono quelli che Visconti definisce “nuovi collanti”, imprese-guida che agiscono come multinazionali tascabili, piattaforme territoriali per l’economia circolare, come nel caso di Prato, e un ruolo ampliato degli attori istituzionali, dalle Academy specializzate ai musei d’impresa capaci di custodire e rinnovare l’identità produttiva locale.
Così, tra continuità e trasformazione, la lectio magistralis restituisce un’idea chiara: il futuro dei distretti italiani dipenderà dalla capacità di rigenerare quella stessa energia originaria, quella rabbia del fare che ha trasformato luoghi periferici in motori di sviluppo condiviso.
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