Keith Jarrett: sfere di suono all’organo
Dall’archivio Ecm, un doppio cd dell’artista americano registrato nel 1976: curioso, ma non sempre riuscito
Forse più Max Reger che Johann Sebastian Bach, anche se l’uno e l’altro non rappresentano né un punto di inizio e né di arrivo. Per chi segue Keith Jarrett con l’approccio maniacale del fan, questo cd – “Hymns Spheres” (Ecm 1087/87) – non aggiunge nulla di nuovo alla creatività verticale del pianista. Anzi, rilancia riflessioni a volte musicalmente amare su quanto Jarrett non sia Glenn Gould, genio della tastiera che dall’organo imparò l’uso dei bassi e la loro pienezza senza considerarsi, però, vero maestro dei registri. Maestro, invece, dell’arte bachiana e di questa devoto servitore. Nel barocco, Jarrett riesce meglio al pianoforte (le Suites di Georg Friedrich Haendel sono squisite nel trovare un parallelismo tra fioriture e densità improvvisativa; Ecm New Series 1530) e al clavicembalo (degne di interesse, per la lucentezza amplificata, le Goldberg Variations di Sebastian Bach; Ecm 1395).
L’organo è uno strumento che non si doma e non si improvvisa. La musica, quella sì, può essere estemporanea e radicale, ma non la funzionalità e la cosmica segreta di uno strumento che necessita di una conoscenza totale degli impasti timbrici e cromatici. Spheres è una sorta di esperimento astratto nella carriera di Keith Jarrett, perché si avverte più un senso di vuoto – nella costruzione logica e matematica della musica – che di struttura. E Jarrett, che senza dubbio cerca di fare forza sulla sua creatività di fantasista delle note; nel 1976 supera di poco i trent’anni di età ed è già famosissimo – non è un organista.
Jean Guillou è un improvvisatore folle e maniacale che, però, riesce a trasformare l’organo in un’orchestra orgiastica perché conosce e possiede, dello strumento, i segreti degli impasti. Jarrett, e lo dimostra in Spheres, non conosce l’organo e non sa come abbinare le potenzialità dei registri alle esigenze arcaico-colte del jazz. Dunque, questa incisione assume una valenza storica più per il coraggio dell’artista che per l’ispirazione musicale. La registrazione, effettuata nel 1976 da Keith Jarrett sul “Trinity Organ” dell’Abbazia Benedettina di Ottobeuren – strumento studiato e costruito da Karl Joseph Riepp, uno fra i maggiori organari all’epoca di Bach – presenta un artista metafisico che, lo si avverte pienamente, non è a suo agio nel gestire la maestosità dei suoni e degli arcani organistici. Approccio poco ortodosso e senza dubbio libero dei registri, con un avvicinamento quasi arrogante alla costruzione delle armonie, ma non del contrappunto (inesistente). Lo strumento, assemblato nella metà del Settecento e già conosciuto in alcune registrazioni bachiane di Karl Richter, è un prodigio di tecnica. E a questa tecnica si deve dare spessore e dinamismo. Purtroppo, in Jarrett vengono a mancare l’uno e l’altro. Non per ignoranza musicale – questo mai – ma per peccato di virtù. Statico il suono e statico, dunque, il movimento delle parti musicali. Che, ovviamente, lasciano l’ascoltatore in balia di un limbo sonoro nel quale l’attesa di un qualcosa che deve arrivare non trova alcuna soluzione. Al di là di questo, il disco rappresenta una prova curiosa – e investigativa – di ciò che Jarrett intende con il termine di improvvisazione.
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