“Quella campagna di odio contro noi magistrati”

Varese - Giancarlo Caselli racconta il suo impegno di magistrato antimafia, e l’eredità scomoda delle grandi inchieste di Palermo

Giancarlo Caselli, il giudice che chiese il trasferimento a Palermo dopo gli assassini di Falcone e Borsellino, ha passato gli Settanta e Ottanta a Torino, in trincea contro il terrorismo. Dal 1992, per sette anni, ha lavorato alla procura di Palermo, stretto in una esistenza blindata, per dirigere le indagini contro la mafia. E forse dovrà passare altri anni, assediato, per difendersi pubblicamente da chi gli rimprovera quello che ha fatto nella sua carriera di magistrato. L’attacco alla magistratura, dopo gli entusiasmi dei primi anni Novanta, è oggi una realtà a cui Caselli dedica almeno metà del suo intervento, nell’aula magna dell’Università dell’Insubria, scelta come palcoscenico di un dibattito sulla giustizia organizzato dalla Lista studenti democratici e condotto dal collega Claudio Del Frate.
(sopra: Giancarlo Caselli) 

L’ex procuratore capo di Palermo è molto netto: contro i magistrati é in corso da alcuni anni una sistematica campagna denigratoria, un gioco sporco, a colpi anche di vere e proprie menzogne, "balle"; così come "balle" sono tutti i teoremi, quelli sì, delle toghe rosse, dell’asse Milano-Palermo, del colpo di stato comunista con l’avallo dei giudici. "Un vilipendio sistematico – incalza il procuratore – scientificamente organizzato, attraverso una campagna denigratoria, e devo dire anche con il silenzio rassegnato e la passività di tanta gente che avrebbe dovuto fare qualcosa di più".

"Oggi ci attaccano con gli stessi argomenti con cui attaccavano Falcone" continua il magistrato, e legge passi di un vecchio articolo dell’editorialista di Panorama, Lino Jannuzzi, che di recente ha pubblicato la notizia risultata falsa di un summit di toghe rosse a Lugano per tramare contro Berlusconi, e che un tempo definiva Falcone un pericolo per l’Italia, responsabile della debacle dello stato di fronte alla mafia.

Caselli tratteggia poi per sommi capi la storia della giustizia italiana del decennio scorso. "Prima della caduta del muro di Berlino – spiega – molte malefatte erano coperte con la scusa della tenuta del sistema in chiave anticomunista, ma dopo si cominciò a pensare che il detto ‘ la legge è uguale per tutti’ fosse un obiettivo praticabile. Così, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, sentimmo il dovere di voltare pagina e di cercare i colpevoli, saremmo stati vigliacchi se non l’avremmo fatto".

Ma c’è anche il capitolo del processo Andreotti, e delle numerose assoluzioni di imputati eccellenti verso cui la procura aveva chiesto pesanti condanne. Non è forse anche per questi fallimenti, gli chiede Claudio del Frate, che oggi è stata minata la forza della lotta alla corruzione? "Non ci fu nessun accanimento contro Andreotti – risponde Caselli – chi afferma questo mente e non conosce le carte del processo. Gli elementi c’erano ed erano consistenti, d’altronde basta vedere le motivazioni della sentenza, basate sull’insufficienza di prove". La reazione contro le inchieste di Mafia sarebbe quindi arrivata proprio perché si indagava su imputati eccellenti, derogando dall’antica pratica di colpire i manovali del crimine senza cercare, nei piani alti, le connivenze. "E oggi, dopo quella stagione – conclude Caselli – il Ministero dell’interno, in una sua circolare sulle emergenze nel paese, non cita più la mafia". E un lungo applauso saluta l’intervento del magistrato, di fronte a una sala piena di gente e vuota di autorità delle istituzioni. In perfetto stile "autoconvocati". 

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Pubblicato il 26 Febbraio 2002
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