Benigno Marcora, l’azienda che “uccideva” i film

Era l'unica ditta al mondo che si occupava del macero delle pellicole. Esiste ancora oggi

«Questo è il macero delle pellicole, qui muoiono i film. Veramente è più esatto dire "li uccidono"». Sono le parole dell’inizio del film di Luigi Comencini "La valigia dei sogni" (1953) che inizia descrivendo l’attività di un’azienda di Olgiate Olona. Azienda che dagli anni ’20 agli anni ’60 è stata l’unica al mondo a occuparsi dello smaltimento delle pellicole. "Benigno Marcora", appunto, è il nome dell’azienda che cancellava i film dal loro supporto, ovvero dalla pellicola cinematografica, ricavando così due elementi molto costosi come la celluloide e il bisolfuro di argento.
Mancano pochi giorni all’inizio del Busto Arsizio Film Festival e abbiamo scoperto che l’azienda citata nello storico film di Comencini esiste ancora e si trova sempre a Olgiate Olona, ma guidata dal figlio di Benigno, Silvio, che oggi ha 55 anni. L’azienda si occupa sempre di celluloide, ma non di macero di pellicole. 

Nel 1953 Luigi Comencini girò l’inizio e la fine del film proprio nei capannoni della Benigno Marcora, allora all’apice del lavoro con camion che andavano e venivano tutto il giorno, carichi di film che avevano fatto sognare, ridere e piangere milioni di persone in tutto il mondo. 
"La Valigia dei Sogni" racconta la storia di un uomo che ha dedicato la sua vita alla conservazione dei film muti e che spesso si recava, clandestinamente, in questa azienda del macero per recuperare qualche spezzone di pellicola, prima che il film venisse "cancellato". «Erano in tanti a venire da noi per portarsi via qualche spezzone di film – spiega Silvio Marcora, oggi alla guida dell’azienda –. Mio padre li lasciava fare, non facevano male a nessuno. A noi arrivano milioni di metri di pellicole e qualche metro in meno non era certo un danno economico».

Chi erano questi personaggi?
«Erano per lo più marchesi o gente benestante di Milano. Al di là del voler salvare i vecchi film, la maggior parte di quelli che venivano cercavano gli spezzoni tagliati dalla censura e che noi avevamo l’obbligo contrattuale di distruggere. Cercavano la signora con il reggicalze o il nudo occasionale. Per ottenere ciò, davano persino la mancia ai dipendenti perché mettessero via qualche spezzone del genere se lo trovavano».

La poesia vuole che, una volta giunti qui, i film venissero "uccisi". In realtà cosa succedeva?
«Mio padre era l’unico al mondo a lavare le pellicole dei film. Aveva scoperto un grande business. Erano milioni i metri di pellicola che giungevano qui da tutto il mondo. Il fratello di mio padre viaggiava in continuazione per portare a casa pellicole soprattutto dalle Americhe, dalle grosse case di produzione come la Paramount. Oltre alle centinaia di copie che giravano per le sale, giungevano qui anche le migliaia di metri di pellicola che venivano girati durante la lavorazione di un film».

Non solo film però.
«No, anche tutti i cinegiornali che, dopo una settimana nelle sale cinematografiche, erano già considerati vecchi. Venivano tenute un paio di copie per l’archivio, mentre il resto passava tutto di qua».

Cosa veniva ricavato dalla pellicola?
«Veniva separata la celluloide, dal bisolfuro di argento con cui veniva impressa la pellicola in bianco e nero. La celluloide veniva utilizzata per fare vernice e nelle calzature, mentre il bisolfuro, una volta trattato, dava argento allo stato puro. Per questi due prodotti non avevamo mai produzione sufficiente a soddisfare la domanda. Siamo arrivati ad avere anche 170 operai. Mai avuto rappresentanti di vendita, solo rappresentanti per acquistare».

La pellicola cinematografica, però, è un materiale altamente infiammabile.
«Gli incendi erano all’ordine del giorno, mio padre non si alzava nemmeno più dalla sedia. Gli uffici principali erano lontani dai capannoni proprio per una questione di pericolo. Bisogna considerare che la qualità di celluloide utilizzata per il film è la più infiammabile delle celluloidi e viene subito prima della dinamite nella classifica dei pompieri. Infatti, i capannoni dell’azienda, già allora, sono stati costruiti come le polveriere dell’esercito, a blocchi, in maniera tale che, quando scoppiava un incendio, era possibile arginarlo subito senza che danneggiasse tutto il resto. Se qualcuno, nonostante i divieti, veniva sorpreso a fumare era licenziato in tronco».

Cosa ricorda di quando Comencini venne a girare il film?
«Avevo solo cinque anni, ma mi ricordo un grande trambusto, i cavalletti con quegli enormi fari neri ruvidi come le macchine da scrivere; fari accesi anche a mezzogiorno che facevano un caldo enorme. Cavi di corrente da tutte le parti e una paura enorme che scoppiasse qualche incendio. Ero solo un bambino, ma mio padre mi mandava in giro a controllare che nessuno si mettesse a fumare».

Cosa produce oggi l’azienda?
«Oggi l’azienda si occupa sempre di materie termoplastiche e facciamo della commercializzazione di granulo termoplastico. Abbiamo però mantenuto lo stesso nome di allora».

Come mai avete smesso di occuparvi del macero di pellicole?
«L’abbandono fu dovuto al cambiamento che c’è stato in entrambe le ricchezze del prodotto. Il motivo principale è stato l’avvento della pellicola a colori nel cinema. Infatti, il colore ha abbassato e ucciso, o ridotto al minino, la presenza del nero e, quindi, del bisolfuro di argento. Anche la celluloide è cambiata: allora era una materia ricercata e utilizzata per vernici, adesivi, calzature e molto altro. Tanto che durante la guerra la ditta fu considerata di interesse militare. Ma il supporto per i film è cambiato: il cinema è chiamato ancora oggi il “mondo della celluloide”, ma di celluloide non c’è più neanche l’ombra». 

Ha nostalgia di quel periodo?
«Molta. Mi sarebbe piaciuto essere vissuto qualche anno prima. Vivere di più in quel periodo in cui il valore della parola, e l’impegno sulla parola, volevano ancora dire qualcosa».

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Pubblicato il 03 Aprile 2003
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