Processo Milani, parla il perito: «Il dna è quello dell’imputato»

Il mozzicone di sigaretta trovato nell'auto usata per la fuga era di Petricca. La difesa contesta

La prova del dna aggrava la sua posizione, ma la difesa è convinta che la perizia non provi nulla. E’ la conclusione più significativa dell’udienza di oggi del processo a carico di Claudio Petricca, 37 anni, sospettato di essere il complice di Vincenzo D’Alfonso, l’uomo che sparò al giovane Eugenio Milani, nel tentativo di rapinare la tabaccheria della madre a Gallarate. Era il 10 dicembre del 1996.
In aula sono stati ascoltati diversi testimoni chiamati a deporre da difesa e accusa. C’era molta attesa per la relazione del perito su un mozzicone di sigaretta trovato nella Fiat Uno grigia usata per la rapina. 
L’auto, rubata il giorno prima dell’omicidio e rintracciata dalla polizia il giorno successivo al delitto, apparteneva a una famiglia di non fumatori. Il mozzicone trovato nel posacenere – mentre a pochi metri di distanza gli agenti rinvennero la pistola – doveva dunque essere stato lasciato da uno dei rapinatori. Secondo il perito, il dna corrisponde a quello di Petricca; la sigaretta è stata stata spenta proprio da lui nel posacenere, prima di abbandonare la vettura, in una via a fondo cieco a lato della ferrovia, sul Sempione.
Per la pubblica accusa, sostenuta dal pm Tiziano Masini, una prova importante, che potrebbe portare alla identificazione dell’imputato nel complice di D’Alfonso.
La difesa ha controbattuto: la tesi dei due legali di Petricca, Patrizio Lepiane e Marilena Gugliemana, è che l’esame del Dna non sia risolutivo e che abbia ancora un margine di errore. I difensori hanno contestato la scelta della perizia sul mozzicone, sostenendo che si potevano analizzare anche altri reperti trovati nel corso delle indagini. 

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Pubblicato il 27 Gennaio 2004
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