Violenza negli stadi: la curva in cattedra risponde agli studenti

Incontro al Liceo Scientifico Tosi sul tema della violenza negli stadi, tra studenti, ultras dell’Inter e il vicequestore Luigi Mauriello

Studenti, ultras e forze dell’ordine a confronto nelle aule dello scientifico Tosi. Tema del dibattito: la violenza negli stadi. E chi meglio dei tifosi e della polizia –  hanno pensato i rappresentanti degli studenti – sono in grado di dare risposte e possono aiutare a comprendere le dimensioni del fenomeno raccontando la loro esperienza sul campo? All’invito dei liceali hanno risposto un gruppo di tifosi della curva nord dell’Inter, capitanata da Franco Caravita, il vicequestore di Busto Arsizio Luigi Mauriello e anche un giovane arbitro, Gabriele Bertelli.
Cosa significa essere un ultrà è la domanda che ha aperto l’incontro. «Essere un’ultrà – ha spiegato Franco Caravita – significa vivere e condividere una passione insieme ad altri. Si va allo stadio perché si ama quella maglia e non certo per comportarsi fuori dalle righe. A far scattare fenomeni di violenza sono situazioni anomale e imprevedibili che accendono gli animi. Ma la maggior parte dei tifosi viene allo stadio solo per tifare. E in questo senso ci sta anche il coro di sfottò. E’ il bello di questa passione. Quello che io personalmente non condivido è il modo con il quale il mondo del tifo organizzato viene spesso raccontato e travisato dai media. Credo che  a volte la stampa enfatizzi ad arte certi comportamenti, come domenica scorsa quando abbiamo circondato il pullman dell’Inter. Alla fine non è successo nulla, abbiamo solo protestato. Qualcuno ha parlato di clima da guerriglia».

Il razzismo, il tifo becero antisemita è un altro fenomeno che spesso si ritrova sugli spalti – ha puntualizzato una studentessa – : per voi questo significa tifare contro? «Di solito in questi casi si risponde alle provocazione dei gruppi avversari – ha spiegato l’ultrà – . Il buuu! verso un giocatore di colore non significa essere razzista. Per quanto mi riguarda ad esempio io sono amico di Martins (giocatore nigeriano). Allo stadio la provocazione è un atto dovuto, perché non è come andare in  chiesa. L’importante è che tutto resti circoscritto». 

«Ci si può sfogare senza insultare e soprattutto senza offendere un popolo intero» ha replicato la studentessa. 
L’impressione è quindi che lo stadio sia per il tifoso una sorta di zona franca, dove nel limite del possibile si può dare sfogo a tante emozioni represse. «E’ un fenomeno sociale – interviene il vicequestore Maurilello – che noi delle forze dell’ordine osserviamo da anni. Comprendiamo lo sfottò, il fischio nei confronti della squadra che non rende, ma quando si commettono degli atti di violenza e le immagini lo testimoniano qui siamo di fronte a dei delinquenti punto e basta. Certo non si deve criminalizzare, ma se uno va allo stadio con dei bastoni, allora bisogna porre attenzione. Io voglio comunque sottolineare come negli ultimi anni ci sia stata più collaborazione tra i gruppi organizzati e la questura. La strada deve essere questa affinchè i furbi, che non centrano nulla con l’amore e la passione per il calcio, vengano smascherati».

Si è parlato anche di differenza tra il modo di vivere una competizione sportiva negli stati uniti o nel mondo anglosassone, di leggi ad hoc, come quelle adottate in Italia e di arbitri, ma alla fine è stata la preside Luisa Macchi a porre una domanda conclusiva e allo stesso tempo riassuntiva al capo-tifoso: Qual è la ricetta per limitare la violenza? Punire o tollerare?. Pronta la risposta del tifoso. «I giovani che vanno allo stadio sono da comprendere e da seguire. Occorre una cambio di mentalità, di cultura. Allo stadio si deve andare per amare e incitare la propria squadra e non per commettere atti violenti gratuiti. Io, che sono un padre di famiglia – conclude Caravita – quando vado in trasferta spero sempre che tutto fili liscio e che nessuno dei ragazzi si faccia male».

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Pubblicato il 22 Gennaio 2004
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