Alcune mode di pensiero aziendale
Ho riferito dei bambini dell’asilo sulle scale del Prado, e certo il mio breve soggiorno a Madrid è stato concentrato sulla pittura e sulla letteratura spagnole. Ma ho anche avuto modo di fare conoscenza, e amicizia, con un giovane tecnico laureato in economia, a cui debbo una gita di una giornata a Salamanca, la più anticha città universitaria spagnola, e con il quale ho fatto pratica di spagnolo conversando di questioni di cui era competente. In particolare abbiamo parlato di ciò che egli fa, ed è la formulazione, la realizzazione e la conduzione di progetti di “outsourcing” in vari campi per società spagnole.
E’ un tema su cui vale la pena di intrattenersi, poiché introduce varie considerazioni di gestione e di strategia aziendale. Outsourcing è un concetto che ha recentemente acquisito grande popolarità nel mondo della organizzazione aziendale. Viene correntemente tradotto in “esternalizzazione”, non che l’espressione italiana mi piaccia molto, ma tant’è. Significa la delega da parte di un’azienda di quelle operazioni che non costituiscono la sua attività essenziale perché siano svolte, con relativa autonomia e responsabilità gestionale, da altra organizzazione specializzata. Se ne è cominciato a ragionare negli Stati Uniti negli anni 90.
E’ interessante vedere come si manifestino mode intellettuali e organizzative. Ne scrivono i mezzi di informazione e le riviste specializzate, vengono pubblicati libri in argomento e i dirigenti o gli imprenditori informati riprendono i concetti, e così si generano le mode, che non necessariamente corrispondono a conoscenza del problema o alla bontà delle soluzioni proposte.
Ripercorro l’evoluzione di queste mode, di cui ho memoria diretta. Dopo la guerra, negli anni cinquanta, il mondo aziendale si rivolgeva alla organizzazione statunitense per ricercare razionalità ed efficienza. E certamente gli Stati Uniti avevano dato prova di sapere organizzare sia una produzione bellica che aveva sommerso il mondo di prodotti che avevano alla fine travolto le forze nemiche, sia una successiva produzione di beni civili che aveva consentito la messa in atto del piano Marshall di assistenza allo sviluppo delle nazioni europee che uscivano esauste dalla guerra. C’era certo molto da imparare, e la parola d’ordine era “organizzazione”. Era l’applicazione in ritardo dei principi Tayloristi alla media e piccola industria europea.
Poi ci fu la moda del “piccolo è bello”. Produzioni non particolarmente difficili erano commissionate a un gran numero di operai messisi in proprio con alcune macchine operatrici, disposti a lavorare con grande intensità e con la collaborazione di tutta la famiglia. Cito gli esempi delle minuterie metalliche e della maglieria. Il metodo ha avuto successo economico, ma a prezzo di sacrifici ed estenuanti orari di lavoro, esponendo l’economia ai rischi della vulnerabilità tecnologica e della concorrenza dei paesi emergenti.
Negli anni sessanta ci fu un’altra moda, le conglomerate. Si tratta di grandi società consistenti in varie divisioni che trattano attività non correlate. Sono figlie della mentalità finanziaria e speculativa, non della mentalità imprenditoriale. In un mercato borsistico in cui si susseguivano periodi di alte e di basse quotazioni, si è pensato di acquisire società facendosi prestare i soldi dalle banche o dal mercato (obbligazioni spazzatura) per acquistare il controllo di società quotate, dando in garanzia i titoli delle stesse società e ripagando i debiti con gli utili che esse avrebbero conseguito. Tuttavia quando i tassi di interesse salirono in seguito a provvedimenti di politica monetaria tesi a contrastare tendenze inflazionistiche, gli utili delle conglomerate si ridussero. Alla fine degli anni 60 non erano ormai viste di buon occhio e a metà degli anni settanta la maggior parte di esse erano ridotte a gusci vuoti, essendo le varie attività aziendali state scorporate. Si era chiuso un ciclo. La moda delle conglomerate era finita, con danni e vittime, e si cominciava a porre invece attenzione al concetto di “core competency”, cioè la competenza intrinseca aziendale.
Questo introduce il discorso sul “core business” (il nucleo essenziale di attività) e sull'”outsourcing” (l’esternalizzazione dei servizi). Mi pare un approccio più illuminante, suscettibile di impostare i problemi in modo costruttivo e di risolverli in modo da avvantaggiare lo sviluppo aziendale. Un approccio da imprenditore, e non da finanziere. Mi piace che si guadagni (possibilmente molto) producendo e vendendo cose che corrispondono a bisogni dei consumatori e che sono migliori di altre sul mercato. Tutti se ne avvantaggiano. Invece a un guadagno speculativo corrisponde una equivalente perdita di qualcun altro. Non si crea ricchezza, la si ripartisce, e neanche tanto secondo meriti. L’outsourcing merita ulteriore approfondimento.
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