“I campi nazisti erano fabbriche di morte. Non deve succedere mai più”
Commemorati i lavoratori della Ercole Comerio deportati nel 1944. Dure le parole di Nedo Fiano sopravvissuto ad Auschwitz
«Il nostro compito è
batterci perché quello che è accaduto
non succeda mai più». È questo il messaggio forte che oggi sabato 12
gennaio, nel giorno della commemorazione per la deportazione della commissione
interna della ditta Ercole Comerio, Nedo Fiano – sopravvissuto al campo di
Auschwitz – ha portato a Busto.
Il ricordo di quei giorni del 1944 è iniziato al parco che si trova all’angolo fra
via Magenta e via Espinasse. Lì, dove un tempo sorgeva la ditta, c’è una
lapide che ricorda Vittorio, Giovanni, Luigi, Arturo, Ambrogio, Rodolfo,
Alvise, Bruno e Mario, deportati e non sopravvissuti al campo di sterminio di Mauthausen. La loro colpa: aver fomentato uno sciopero.
La commemorazione si è poi spostata al Museo del Tessile. Tante le personalità
del mondo politico, associativo, sindacale e culturale intervenute sia da Busto
che dai comuni vicini. Tanti anche i cittadini e le cittadine, molti quelli che
hanno vissuto in prima persona quegli anni accanto ai più giovani. In
sala c’erano anche dei giovanissimi, probabilmente studenti delle scuole
superiori spinti dai professori a partecipare. Forse non capiscono appieno il
senso della giornata: chiacchierano senza prestare molta attenzione e qualcuno
dal pubblico li riprende.
I primi a parlare sono i lavoratori della ditta Comerio per bocca di un loro
rappresentante. Ringraziano tutti i presenti e ci tengono a ricordare i loro martiri insieme ai martiri del nostro
tempo: gli operai morti a Torino nel rogo alle acciaierie Thiessen.
Una parola speciale, di stima, va anche ad Angioletto
Castiglioni (ex partigiano e deportato) vittima di un vile attacco pochi mesi fa. Seduto per la prima volta sul palco e non fra il pubblico ringrazia di cuore
per l’applauso. I dipendenti ricordano anche con sdegno lo sfregio ai danni della lapide che ricorda i lavoratori deportati
Il sindaco Gigi Farioli punta
l’attenzione sull’importanza di commemorare il passato. «Questi non devono diventare dei momenti abitudinari, ma delle occasioni per stare insieme e fare
memoria. L’indifferenza è il male del nostro secolo
: noi dobbiamo invece vivere questi attimi come testimonianza di tutte
quelle persone che hanno fatto grande la nostra città».
E poco importa, come sottolinea anche lui nato in Toscana a Firenze, se Nedo
Fiano non è un bustocco ed è finito ad Auschwitz e non a Mauthausen. «Fra i
campi di sterminio c’era un’identità comune perché il progetto dei nazisti si ripeteva costantemente». Le sue parole,
interrotte a volte dalle lacrime che i ricordi troppo forti fanno affiorare ai
suoi occhi o dagli “ordini” che urla in tedesco per far capire cosa succedeva
nei campi, rivivono per quasi un’ora di fronte a un pubblico che lo ascolta in
silenzio. E allora Fiano racconta del viaggio
«se così si può chiamarlo» che dall’Italia l’ha portato ad Auschwitz. Ricorda
le umiliazioni «studiate dai nazisti per privarci di qualsiasi umanità. È più dignitosa una fucilazione che quel
viaggio in treno». Parla con la voce rotta di sua mamma, dei suoi occhi: al
campo di sterminio lei ci è solo arrivata, poi è stata subito destinata al
Crematorio 2. «Chissà cosa avrà pensato la mamma in quei momenti». Alcuni degli
studenti in sala si alzano e se ne vanno: forse non hanno capito il peso di
quelle parole pronunciate da chi ha vissuto in prima persona, da chi ha visto
morire uomini e donne solo perché non hanno capito un ordine in tedesco. E
proprio la conoscenza di questa lingua ha salvato Fiano. «Nel 1933 mio nonno ha
capito che in Germania stava succedendo qualcosa di brutto e ha pensato che forse conveniva imparare il tedesco.
Nel campo sono stato scelto come interprete: questo mi ha salvato la vita».
Ma in tanti secondo Fiano ignorano
quello che è stato. «Pochi giorni fa, durante un prelievo di sangue, una
dottoressa si è stupita del mio tatuaggio. Le ho detto: “È il tatuaggio di Auschwitz”,
ma lei non lo sapeva».
È amara la sua conclusione. «Nel dizionario non esiste un’espressione che possa
far capire davvero che cosa era realmente la cattiveria dei nazisti. Non si può
spiegare a chi non l’ha vissuto come è la vita in un campo di sterminio. Ma è
un dovere trasmettere anche a chi non c’era questa esperienza, altrimenti è
come se non fosse mai accaduta. Allora non ho trovato solidarietà, neanche a
scuola. L’uomo però non è cambiato, è ancora divorato dall’egoismo, dall’intolleranza e mette il passato sotto le
scarpe. Ma noi siamo il passato e il futuro e dobbiamo fare in modo che
tutto questo non accada più».
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