“Caramadre”, Celestini incanta e commuove con le lettere di Fabbrica

Grandi applausi per il monologo dell’artista romano che ha dato il meglio di sé al teatro Condominio

Sul palco assieme ad Ascanio Celestini al teatro Condominio di Gallarate c’erano due interpreti speciali: il lavoro e la memoria. In Fabbrica, crudele e spietato monologo sulla vita nell’altoforno che può essere qualunque opificio del mondo, si racconta un pezzo dell’Italia che l’attore romano ha reso immortale non solo per il linguaggio usato – quello di un operaio entrato in fabbrica per sbaglio (“Cara madre vi scrivo questa lettera che è l’ultima lettera che vi scrivo. Ve n’ho scritta una al giorno per tanti anni…”) – ma per la raccolta di testimonianze registrate e riprodotte nel corso dello spettacolo.
“Fabbrica” è un racconto teatrale in forma di lettera, la storia di un capoforno alla fine della Seconda guerra mondiale raccontata da un operaio appena assunto. Il capoforno parla della sua famiglia, del padre e del nonno che hanno lavorato nella fabbrica quando il lavoro veniva raccontato all’esterno in maniera epica. Una storia che tocca ogni parte della rivoluzione industriale italiana (“all’inizio c’erano operai che erano grandissimi, alti 30, 40, 50 metri), la Prima guerra mondiale, il fascismo (“prendila la tessera, prendila, così ti faccio stare in bagno anche per due ore se vuoi…invece pisciavamo nelle bottiglie perché la linea non può essere abbandonata”) e le lotte operaie negli anni 50, quando il ministro degli interni Mario Scelba faceva sparare ai manifestanti dalla polizia.
Racconti crudeli, di sfruttamento, paternalismo, povera gente e lavoro. Tanto lavoro. Anche quello fatto dallo stesso autore: una ricerca è incominciata con la lettura di testi che raccolgono le memorie degli operai legate soprattutto alla prima metà del secolo scorso. “Dopo un anno ho incominciato ad aprire il lavoro ad una serie di laboratori in giro per l’Italia – scrive lo stesso Celestini nella presentazione dell’opera. Il momento centrale di questi laboratori è stato quasi sempre l’incontro con operai che hanno lavorato in fabbrica tra gli anni ’40 e ’60 e insieme agli operai mi è capitato di ascoltare e registrare anche minatori e contadini”. E’ riso amaro quello che esce dai rari momenti in cui il pubblico riesce a vagare sulle figure proposte da Celestini, dal vecchio e puzzolente proprietario terriero, all’operaia – vero scherzo della natura – che ha un segreto da custodire, a Fausto, incontrato dal protagonista al primo turno di lavoro, che si chiama così perché così si chiamava il padre, il nonno e un’intera stirpe di operai della fabbrica, mostro di cemento armato che nasconde la sorte degli uomini che ci lavorano e che alla fine è capace di “bersi” tutti i ricordi e i sogni all’interno di un’enorme colata d’acciaio. Da vedere e rivedere a teatro: gli assaggi su youtube rendono, ma non come al buio e con la scenografia minima che ti fa uscire dalla fabbrica solo quando parte l’applauso.

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Pubblicato il 02 Marzo 2009
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