“Alla base dei commenti c’è un forte deficit di informazione”

Sergio Moia, della segreteria provinciale della Cisl, fa un'analisi dei commenti all'articolo "Ministro, basta con i respingimenti"

Sergio Moia, segretario dela Cisl varesina, risponde ai commenti dell’articolo "Ministro, basta  con i respingimenti".

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La materia dell’immigrazione e quella dell’accoglienza dei rifugiati suscita molta passione. Prova ne sono i numerosi commenti alla pubblicazione del documento consegnato da Cgil-Cisl-Uil e altre associazioni nell’incontro con il prefetto del 12 giugno.

Spesso però i giudizi espressi, soprattutto quelli negativi, scontano una scarsa conoscenza del fenomeno che pur vogliono giudicare e questo mi spinge a cercare di approfondire il punto di vista di chi ha consegnato quel documento.
Innanzi tutto occorre non fare confusione tra chi viene in Italia per richiedere asilo politico e chi invece ci viene per motivi economici. I primi arrivano prevalentemente con le “carrette del mare”. Per questa via sono arrivati in Italia 153.756 stranieri negli ultimi 7 anni, con il picco massimo nel 2008 (36.951). Nel 2008 circa 31.000 hanno fatto domanda di asilo e per la metà è stata ritenuta fondata. Si è cioè valutato che il loro caso merita di essere considerato. Per tutti gli altri si procede al respingimento, in conformità con il diritto internazionale. (foto: Sergio Moia, il secondo da sinistra, durante una riunione dell’Anolf- Cisl)
Non c’è invece rispetto del diritto internazionale quando il respingimento è collettivo, quando non consente cioè agli stranieri che ne hanno l’intenzione di presentare la domanda di asilo. Ed è appunto questo che viene contestato al governo in riferimento ai respingimenti attuali. La contestazione non viene ovviamente dalle associazioni che hanno firmato il documento al prefetto, viene dall’ONU. Noi ci siamo limitati a chiedere al governo come ritiene compatibili questi respingimenti con le convenzioni internazionali, che l’Italia ha liberamente sottoscritto, non ritenendo accettabile la “foglia di fico” della distinzione bizantina tra acque internazionali e nazionali, né la circostanza che il “lavoro sporco” sia stato appaltato alla Libia. In sostanza chiediamo come il governo possa dar seguito alla libera scelta dello stato italiano di accogliere i richiedenti asilo e insieme di chiudere la porta d’ingresso usata dalla stragrande maggioranza di loro, senza nel contempo aprirne altre.
E’ chiaro che l’accoglienza comporta degli oneri ed è giusto che lo stato italiano chieda un coinvolgimento maggiore dell’Unione Europea. Tuttavia va anche riconosciuto che oggi l’Italia ospita il numero minore di rifugiati tra i grandi paesi europei (1 ogni 1500 abitanti, contro 7 su 1000 abitanti di Germania e Svezia), che l’Europa mette a disposizione un fondo specifico per i rifugiati (FER), a cui ricorre anche l’Italia, che gli impegni internazionali che vengono assunti, vanno comunque rispettati.
 
Per quanto riguarda gli stranieri che vengono in Italia per motivi economici le questioni e i ragionamenti sono altri. Nel documento al prefetto parliamo della clandestinità come “pedaggio” che l’immigrato deve pagare se vuol trovare un lavoro in Italia. A cosa ci riferiamo? Al fatto che in Italia non si può venire regolarmente per cercare lavoro. Ciò fu previsto fino al 2000 dalla legge conosciuta come Turco-Napolitano, ma poi fu abolito dalla Bossi-Fini, per la quale lo straniero va assunto all’estero. Poiché, come è ovvio, nessuno lo fa (e chi ci ha provato, spesso poi ci ha rinunciato per la burocrazia esorbitante ed i tempi inaccettabili), la modalità prevalente di ingresso degli stranieri alla ricerca di lavoro è irregolare, ma “legale”: entrare in Italia con un visto turistico, della durata di tre mesi. Chi trova lavoro in questi tre mesi però, non si vede poi riconosciuto il permesso relativo, perché la legge non lo consente e quindi diventa irregolare. Chi trova lavoro dopo i tre mesi diventa irregolare (leggi “clandestino”) prima ancora di aver trovato il lavoro. Quindi la grande maggioranza degli stranieri che vengono in Italia per lavorare sa (ciò che conosce molto bene anche il governo italiano) che è inevitabile un periodo di lavoro nero e permanenza illegale, prima che, tramite una sanatoria o una “legge flussi”, si regolarizzi la sua posizione. Più dei due terzi degli immigrati entrati dal 2002 (anno di introduzione della Bossi-Fini) e che oggi sono regolari (c.a. 1.800.000), hanno seguito quel percorso. Con l’attuale legislazione la “clandestinità” è quindi un passaggio necessario nel percorso di ingresso per ottenere un lavoro regolare nel nostro paese e quindi esisterà sempre una percentuale “necessaria” di clandestini per far funzionare la politica migratoria italiana, che pure è iper-regolata e non senza regole, come asserito da alcuni commenti (Marco e altri).
Stanti così le cose, parecchie delle osservazioni sui clandestini contenute nei commenti sono prive di fondamento, perché la clandestinità non è la scelta di una parte di immigrati, che si oppone alla regolarità degli altri, quanto uno stato necessario nel normale percorso di ingresso di un immigrato nel nostro paese, finché permarrà l’attuale legislazione.
Sempre più spesso poi, a causa della crisi, lo stato di clandestinità diventa anche uno stato di “ritorno” dell’immigrato, quando perde il posto di lavoro. In questo caso la legge gli concede un permesso per la ricerca di un nuovo lavoro di sei mesi (la legge dice testualmente “almeno sei mesi”, ma le questure e recentemente il Ministero degli interni interpretano, non si sa perché, “al massimo sei mesi”). Se l’immigrato non trova lavoro in questi sei mesi, perde il titolo di soggiorno e riceve il “foglio di via”, non importa se risiede in Italia da 1, 5, 10 anni, se è single o ha famiglia, o magari anche figli nati in Italia. Non importa neanche (e questa è la cosa più assurda) se abbia un reddito garantito dagli ammortizzatori sociali (disoccupazione o mobilità). Dopo sei mesi out!
E’ chiaro ed è ovvio che non se ne vanno, e tutti gli addetti ai lavori lo sanno, in primo luogo il governo. Tutti però fanno finta di non vedere, perché, se accettassero di farlo, dovrebbero convenire che la Bossi-Fini si sta trasformando nella principale fabbrica di clandestini e questo è difficile da accettare per chi l’ha sottoscritta!
Infatti, anche se l’immigrato dopo sei mesi, non avendo trovato lavoro e avendo ricevuto il foglio di via, resta in Italia e trova un nuovo lavoro, non lo può più fare regolarmente, la legge non gli consente più nessun sistema di “recupero” e quindi diventa necessario il lavoro nero e la clandestinità, aspettando la prima sanatoria futura.
In questi mesi sono decine di migliaia gli immigrati che ricadono nella clandestinità dopo anni di permanenza e lavoro regolare, solo perché per i partiti di governo riformare la Bossi-Fini sembra un tabù.
Tuttavia oggi anche i bambini sanno che siamo in presenza della crisi più grave degli ultimi 70 anni e che la caduta produttiva di questi mesi durerà almeno un anno, se non di più. Che senso ha mantenere il permesso di ricerca occupazione fermo a sei mesi in questa situazione e poi dire che non vogliamo i “clandestini”?
Che senso ha l’affermazione del presidente del consiglio che nessuno sarà lasciato solo in questa crisi?
Sono queste le domande che abbiano fatto al prefetto, perché le trasmetta al governo … sempre che abbia la volontà e l’attenzione per rispondere.
 
Post scriptum
Tocco, fuori testo, una questioncina a margine.
Una delle posizioni presenti nel dibattito politico sulla politica migratoria è quella della preferenza a portare aiuto agli immigrati dei paesi poveri a casa loro, piuttosto che di ospitarli nel nostro paese. E’ una posizione molto sponsorizzata dalla Lega Nord, che in alcuni commenti ho visto trasformata “pelosamente” in “aiutateLI a casa loro”.
Se il paese è in guerra permanente, come la Somalia, questa posizione si commenta da sola, visto che qualche anno fa gli italiani, e non solo loro, se la sono letteralmente data a gambe levate, dopo aver tentato un timido intervento sotto l’egida dell’ONU. Se invece ci si riferisce ai paesi poveri che non sono in uno stato di belligeranza (anche se di solito i richiedenti asilo arrivano da lì), dove il contributo che arriva dall’Italia potrebbe essere di tipo economico, occorre notare che, in più sedi internazionali, i paesi occidentali si sono impegnati a portare gli aiuti ai paesi poveri allo 0,7% del PIL entro il 2010. Ciò fu ribadito anche al G8 di Genova del 2005, presieduto dall’attuale Presidente del consiglio italiano, che allora si impegnò addirittura a fare uno sforzo aggiuntivo per l’Africa. A due anni dalla scadenza di quell’impegno, nel 2008, l’Italia ha stanziato lo 0.16 % del PIL e, con la finanziaria di fine anno, lo ha ridotto del 50% per il 2009. E, nonostante tutto questo, Berlusconi propone (con quale credibilità?) di rimettere al centro un impegno analogo nel G8 de l’Aquila.
 
Sergio Moia
Segretario Cisl Varese

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 15 Giugno 2009
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