Ho giurato di dire la verità sui gradini del tribunale
Una storia di ordinarie barriere architettoniche in quello che dovrebbe essere il tempio dell'uguaglianza, la sede del giudice di pace
La vita di un portatore d’handicap è fatta di scale, ascensori troppo piccoli, montascale senza chiavi. Ci siamo abituati, è la norma, e spesso è anche divertente aggirarli, gli ostacoli. Ma quando gli ostacoli li trovi in quello che dovrebbe essere il tempio della giustizia, come la sede di un giudice di pace, c’è qualcosa che non va.
Quella che racconto oggi è una storia che potrebbe avere dell’ordinario. Questa mattina mi sono dovuto recare presso il giudice di pace di Gallarate, per testimoniare in favore di mio padre. Una banale storia di multe e parcheggi, che si è conclusa nel migliore dei modi. Poiché il perno della causa verteva sul contrassegno per il parcheggio disabili, che io possiedo essendo su una sedia a rotelle, il giudice di pace ha voluto convocarmi per una testimonianza. La giustizia mi chiama, e io rispondo.
Quando arrivi di fronte all’ingresso del giudice di pace di Gallarate ci sono due gradini, ma anche un imperioso scivolo a due tornanti. Altro che bilancia, questo è il mio personale simbolo della giustizia per tutti. Peccato che tra te e l’ingresso ci sia un giardino con parcheggio, e che per evitare il posteggio selvaggio sia stato installato un passaggio livello. Un passaggio livello con una piccola apertura per consentire il passaggio delle persone. Se per persone intendi esclusivamente chi può stare in piedi: impossibile passarci con una sedia a rotelle. Torno indietro e cerco un campanello, per chiedere di aprirmi le porte della giustizia. Il tipico pulsante blu per l’assistenza ai disabili non lo trovo, ma un campanello c’è, solo che per me che sto seduto è troppo alto.
Avessi dovuto recarmi da solo sarei rimasto tagliato fuori. Per fortuna sono con mio padre, che passando dal "pertugio" ha chiesto di aprirmi la sbarra. Sbarra aperta, posso scivolare felice sull’imperiosa pedana della giustizia. La mia udienza è al piano terra e penso che ormai sia fatta. E invece sono ben nove: nove i gradini di marmo che mi separano dal mio giudice di pace. Per superarli c’è l’oggetto più malefico per la vita di un portatore d’handicap: il montascale. I montascale sono piccoli, i montascale hanno chiavi che non si trovano mai, i montascale sono perennemente rotti, specialmente se non sei un portatore d’handicap magrolino che si muove con una carrozzella a mano. Io sono pigro e mi piace la pizza, quindi mi muovo con una carrozzella a motore, lo confesso.
L’addetta alla logistica, squadrandomi, proferisce velocemente: "Chiamo il giudice e facciamo tutto qui". Ma come, la mia testimonianza devo consegnarla su dei gradini? Non mi piace, così turandomi il naso affronto con coraggio il montascale: "Me lo faccia provare". Va a prendere le chiavi e proviamo. La pedana è di quelle mignon, piccola. È stata montata in uno spazio angusto contro la porta, quindi c’è pochissimo spazio per salirci sopra. In più una delle ribaltine non si abbassa, giusto per complicare le cose. Con l’aiuto di mio padre, e sotto lo sguardo perplesso di tutti i presenti (compreso il mio giudice) riesco a posizionarmi. Ma rimango fermo: la pedana non parte. "Non partiva nemmeno l’altra volta", dice una voce alle mie spalle. E un’altra voce, quasi minacciosa: "In fondo cosa ti aspetti, si usa pochissimo e non facciamo mai la manutenzione".
Ecco, io non faccio il collaudatore, faccio il giornalista. Decido di scendere e dopo 15 minuti mi ritrovo a giurare di dire tutta la verità sui gradini del tribunale. Mezza udienza l’ha portata avanti mio padre, in cima alle scale, mentre li guardavo dal basso. Mio padre è sbadato, non si ricorda i miei dati personali, giusto per aiutarlo ho dovuto urlare nome, cognome, data e luogo di nascita dal fondo delle scale. Poi la mia testimonianza, sotto voce, sulla porta. E la firma della testimonianza, sulle ginocchia.
Cosa non ha funzionato oggi? Tutto e niente. La pedana c’era, per carità, e a volte si può rompere. Certo, fa specie che un luogo deputato alla giustizia fondi tutta la sua accessibilità su un ingresso solo, che pur mettendoti a norma (non prendiamoci in giro) sappiamo tutti quanto sia poco affidabile. La gentilezza del personale, e del mio giudice di pace, è incontestabile. Ma l’imbarazzo si tagliava con il coltello: non il mio, il loro. Forse, nei luoghi simbolo come questi, non farebbe male qualche piccolo accorgimento, fin dal momento della progettazione. Un campanello più basso, un pertugio più ampio e una pedana… funzionante. Magari, esageriamo, anche uno scivolo.
A causa conclusa, salutandomi, il giudice di pace mi ha detto: "Buon lavoro!". Spero di averlo fatto.
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