“Mara Cagol era un capo”
Pier Vittorio Buffa, mezzo sangue varesino, giornalista del Gruppo L'Espresso, racconta come è nato il libro Mara Renato e io e torna sul legame, anche affettivo, tra i fondatori delle Brigate rosse
Mezzo sangue varesino, ha una casa a Castello Cabiaglio, dove da bambino ha passato intere estati. «Il mio trisavolo, Ezechiele Zanzi, era segretario comunale a Varese, e nel 1859 in quella villa ospitò Giuseppe Garibaldi. Conservo con cura l’autografo dell’eroe dei due mondi».
Pier Vittorio Buffa oggi è il responsabile delle edizioni online dei giornali locali del Gruppo L’Espresso. Il suo interesse diretto per il terrorismo risale a circa 30 anni fa. Insieme con Franco Giustolisi ha scritto “Mara Renato e io”, uno dei libri più venduti sulla nascita delle Brigate rosse. Alberto Franceschini parla in prima persona, ma in realtà il racconto nacque da lunghe interviste con i due giornalisti, che allora lavoravano all’Espresso.
Nel 1982 Buffa finì due giorni in carcere a Venezia, per non aver rivelato le fonti dell’articolo in cui aveva raccontato le torture inflitte ad alcuni brigatisti, coinvolti nel sequestro del generale Dozier. Per quanto breve, per lui fu un’esperienza toccante che nei mesi successivi lo portò a interessarsi alla condizioni delle carceri italiane. Due anni dopo, per la Rizzoli, uscì il libro “Al di là di quelle mura”.
«Mentre con Giustolisi giravo per questa lunga inchiesta, a Nuoro incontrai per la prima volta Alberto Franceschini. Allora non si era ancora dissociato dalle Brigate rosse. Ci colpì subito perché era uno che ci credeva profondamente in quello che aveva fatto. Era solito dire che lui si era bruciato le navi alle spalle per non voler ritornare indietro dalle scelte».
Come nacque il libro?
«Dopo qualche tempo incontrammo Franceschini a Rebibbia e lui ci diede la disponibilità a raccontare la storia della nascita delle Br. Rizzoli rifiutò la proposta di pubblicare il libro. Mondadori invece accettò subito, ma volle rivedere l’impostazione. Vittoria Calvani, allora responsabile dell’editing della casa editrice, ci consigliò di farlo narrare in prima persona a Franceschini, come lo avesse scritto lui. Per noi due, che avevamo realizzato tutta la lunga intervista, fu un grande sacrificio, perché scomparivamo. Questa fu però la grande forza del libro che, ancora oggi, vende molte copie ed è considerato uno dei più importanti per conoscere quella stagione del terrorismo».
Ti sei pentito di quella scelta?
«No, anche se fu una decisione sofferta, ma oggi posso dire con certezza che facemmo bene. Il libro è avvincente e ricco di dettagli sulla nascita delle Brigate rosse».
Che tipo è Alberto Franceschini?
«È uno che ha lavorato molto sulla sua storia. Fu arrestato l‘8 settembre del 1974 dopo aver effettuato il sequestro Sossi, ma non ha omicidi alle spalle, e ha costruito una sua verità sui fatti del terrorismo. È uno dei sostenitori della tesi che Mario Moretti fosse un infiltrato e che fosse eterodiretto dall’esterno».
Che rapporto aveva con Mara Cagol?
«Tra loro c’era un legame molto forte. Dalle sue parole, allora, si capiva che lei era una donna di grande fascino, molto determinata e con un credo notevole. È stata sua compagna nelle Br e anche nel privato. La Cagol era un punto di forza e di equilibrio nell’organizzazione. Era la donna del capo (sposata con Renato Curcio, ndr), ma capo lei stessa».
Hai saputo della rappresentazione teatrale di Angela Demattè?
«Si e quando arriverà a Roma andrò a vederla. Se dopo tanti anni si parla ancora di Mara Cagol significa che questa donna ha avuto un peso importante. Ancora oggi c’è il sospetto, e molti sostengono questa ipotesi, che sia stata giustiziata. Quando nel giugno del 1975 viene uccisa in uno scontro a fuoco nella cascina Spiotta ad Acqui Terme, fu ucciso un carabiniere, mentre un terrorista riuscì a fuggire e di lui non si sa più niente. Alberto Franceschini allora era in carcere a Saluzzo e venne a sapere della morte della Cagol dal telegiornale. Quelle pagine sono tra le più delicate, dove passa, solo per un momento, la fragilità dell’uomo e non solo del militante politico».
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