Paziente dimesso muore, dopo sette anni il processo è da rifare
La Cassazione annulla l'assoluzione in appello del medico che firmò le dimissioni di un infartuato ricoverato da nove giorni all'ospedale di Busto: l'uomo morì la notte stessa per un nuovo attacco
Non si rivelò una decisione felice quella di rimandare a casa Romildo B., quel 18 giugno 2004, dall’ospedale di Busto Arsizio dove era stato ricoverato nove giorni prima per un infarto, trattato con l’apposito "stent medicato" inserito nelle coronarie per ripristinarne la funzionalità compromessa. L’uomo, che pure sembrava star bene alla dimissione, morì la notte stessa per un nuovo attacco. E il relativo processo per omicidio colposo a carico del medico responsabile di quella scelta andrà rifatto da capo: così ha sentenziato la Quarta sezione della Corte di cassazione sul caso, annullando con la sentenza 8254 l’assoluzione in appello del sanitario, già condannato in primo grado a 8 mesi più i danni morali alla famiglia. Ad appellarsi contro la successiva assoluzione erano stati i familiari e la Corte d’Appello.
La Corte rileva nella sua sentenza che i criteri strettamente legati all’economicità e al contenimento della spesa sanitaria non possono in alcun modo prevalere sul diritto alla salute del malato; in ogni caso per le dimissioni delle persone ricoverate bisogna attenersi a valutazioni mediche, non ai criteri delle ‘linee guida’ in uso nelle strutture sanitarie, spesso determinate dalle suddette esigenze di bilancio. Era stato proprio il fatto che il medico aveva seguito tali linee guida a motivare l’assoluzione in appello.
Il paziente era altamente a rischio, essendo obeso e fumatore; secondo la perizia legale un intervento tempestivo quale quello che avrebbe ricevuto restando ricoverato in reparto lo avrebbe salvato. Anche da qui il ribaltamento della sentenza, oltre che dal rilievo che le linee guida "altro non sono che uno strumento per garantire l’economicità della gestione della struttura ospedaliera". Le esigenze del malato, per la Corte, vengono prima di tutto, anche e soprattutto per il codice deontologico del medico, che deve avere la precedenza sulle esigenze della singola struttura ospedaliera. La Cassazione ha così stabilito che i medici non sono tenuti a rispettare direttive in contrasto con il bisogno di cura del paziente, nè possono essere discolpati "ove se ne lascino condizionare, rinunciando al proprio compito e degradando la propria professionalità e la propria missione a livello ragionieristico".
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