«Uccidere, farsi uccidere o scappare»

Le storie raccontate dai 43 profughi arrivati dalla Libia e alloggiati all'hotel Plaza dove hanno assicurato vitto e alloggio

«Uccidere, farsi uccidere o scappare» è questo l’ aut-aut che hanno dovuto affrontare i 43 profughi che sono ora alloggiati al Plaza hotel di Varese: «Non ho potuto fare altro – racconta Jeremy -. Quando è scoppiata la guerra in Libia le uniche due possibilità erano imbracciare le armi o scappare. Io non ho mai preso in mano una pistola e non volevo fare nessuna guerra. Sono stato costretto ad andare via».
 
Questa storia è comune a molti dei 43 profughi ospitati nell’hotel di via Sanvito. Vengono dall’Africa sub-sahariana, da Costa d’Avorio, Ghana, Mali, Burkina Faso, Gabon, Niger, Nigeria e hanno deciso (alcuni sono stati costretti) di andare in Libia per motivi lavorativi: «Lavoravamo quasi tutti nel campo delle costruzioni – spiega Patrick, ghanese, portavoce dei 43 – avevamo un buon stipendio con il quale potevamo mantenere le nostre famiglie e non volevamo andare via da lì. Poi la guerra ha cambiato tutto e ci siamo dovuti imbarcare per scappare in Italia». Il viaggio dalle coste libiche fino a quelle lampedusane per alcuni è stato tragico: quattro giorni in mare e la propria moglie all’ospedale subito dopo l’approdo. «Non vedo l’ora di rivederla – dice Tony, con uno sguardo che ricorda la paura e l’angoscia di quei brutti momenti -. Ho le carte per il ricongiungimento, spero di rivederla presto». Ora vivono in camere doppie, stanno tutti bene e hanno almeno la sicurezza di mangiare e dormire. Restano però altri problemi: servono vestiti, prodotti per l’igiene e biglietti per il trasporto pubblico.
 
La loro giornata passa monotona dalla televisione a un giro in centro. I musulmani credenti si recano a piedi fino alla moschea di via Giusti. Ma il vero problema rimane il contatto con i propri famigliari: «Non abbiamo schede telefoniche per chiamare – continua Patrick -. Non possiamo lavorare perché la legge non ce lo permette e non abbiamo la minima idea di come pianificare il nostro futuro. Per alcuni non è un grande problema: ci sono anche ragazzi molto giovani che sono andati in Libia per avventura senza responsabilità particolari: ma io ho una moglie e quattro figli. Voglio rivederli». Ed è proprio questo l’obiettivo della maggior parte dei ragazzi che ora sono qua a Varese. «Tornare
a casa e stare con la mia famiglia: è questo il mio sogno – spiega Jeremy – ma ora la nostra situazione è confusa, vorremo più chiarezza. La gente è molto gentile con noi: mai avuto problemi da quando siamo in Italia con la popolazione. Vorremmo soltanto essere più considerati dalle istituzioni per capire meglio qual è la nostra condizione attuale. Nous ne sommes pas des animaux – chiosa Jeremy – nous sommes des être humains».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 05 Agosto 2011
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