Dobbiamo chiederci dove sta andando il lavoro

Intervista al giuslavorista Michele Tiraboschi che sabato 23 marzo sarà il relatore dell'incontro organizzato da Confartigianato imprese Varese sul tema "flessibilità e crescita del capitale umano: il lavoro che cambia"

Michele Tiraboschi, professore di diritto del Lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia, sarà il protagonista, con il giornalista del "Corriere della Sera" Fabio Savelli, dell’incontro organizzato da Confartigianato imprese Varese, che si terrà sabato 23 marzo (inizio 10 e 30) al Teatro Condominio di Gallarate, sul tema "Flessibilità e crescita del capitale umano: il lavoro che cambia". L’incontro rientra in un ciclo di 6 appuntamenti in preparazione del  congresso degli Artigiani che si terrà al centro congressi Ville Ponti il 19 maggio prossimo.
Tiraboschi, giuslavorista di rango – è stato allievo del professor Luciano Spagnuolo Vigorita -, è anche coordinatore  del comitato scientifico di Adapt e direttore del centro studi internazionali e comparati "Marco Biagi", nonché commentatore del quotidiano economico "Il Sole24ore".

Professore, dove sta andando il mercato del lavoro e perché deve cambiare?
«Difficile dire con precisione dove stia andando il nostro mercato del lavoro tanti e tali sono i cambiamenti in atto. Le proiezioni da qui ai prossimi dieci anni non promettono nulla di buono. Accanto agli andamenti della disoccupazione, soprattutto giovanile, preoccupa, in particolare, la carenza di competenze elevate e intermedie legate ai nuovi lavori, il persistente rifiuto del lavoro manuale e un disallineamento complessivo della offerta educativa e formativa rispetto ai fabbisogni, attuali e potenziali, espressi dal mercato del lavoro. Anche per questo, più che discutere di dove stia andando il mercato del lavoro, sarebbe bene parlare di dove stia andando il lavoro. Perché è chiaro che, in una economia globale il lavoro è mobile e si sposta, indubbiamente, dove costa meno, ma anche dove vi sono le giuste infrastrutture, fisiche e intangibili, penso alla pubblica amministrazione e alla qualità del sistema scolastico e universitario. Insomma, il lavoro si crea e si alimenta dove vi sono le condizioni per produrre e creare valore e cioè per fare impresa. E qui la differenza la fanno le scelte della politica e della rappresentanza sociale». 
Sul fronte disoccupazione esistono manovre correttive per evitare il collasso?
«I paesi più lungimiranti guardano al futuro. Si stanno attrezzando per competere nella economia della informazione e della conoscenza investendo sulle persone e sui giovani in particolare. Progettano percorsi di istruzione e formazione di qualità, accessibili a tutti e coerenti con le esigenze del sistema produttivo. Preparano i giovani di oggi a operare sui mercati del lavoro di domani. Creano prospettive di stabilità occupazionale puntando sulle competenze e non su rigidità di legge e contratto che, come nel caso della legge Fornero, ingessando inutilmente l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro, deprimono le dinamiche del mercato del lavoro». 
Flessibilità è la parola sulla quale si concentra questa nostra nuova economia. La formazione dei lavoratori può aiutare la flessibilità?
«Diversamente da quanto si è soliti pensare la flessibilità non è solo legata al tipo di contratto e alle protezioni contro i licenziamenti, la cosiddetta. flessibilità in uscita, ma prima ancora alle mansioni e al modo con cui si interpreta un ruolo aziendale, un mestiere, una professione. Non a caso la strategia europea per l’occupazione propone l’utilizzo della parola adattabilità rispetto alla pura e semplice flessibilità che può anche essere confusa con la precarietà. L’adattabilità indica attitudine al cambiamento e questo è possibile proprio in forza delle competenze possedute di modo che certamente la formazione è, al tempo stesso, antidoto alla precarietà e principale alleato della buona flessibilità». 
Il ruolo della formazione continua e permanente nel nuovo mercato del lavoro quale importanza assume?
«La parola formazione ha purtroppo perso oggi l’importanza e l’autorevolezza che dovrebbe avere tanto è usata e abusata al punto da diventare un vuoto slogan buono per tutte le stagioni. Pesano anche gli storici fallimenti e le disfunzioni del sistema italiano di istruzione e formazione. Io credo che dovremmo ritornare allo spirito linee guida sulla formazione del 2010 concordate da governo, regioni e parti sociali ma poi mai implementate». 
Formazione e competitività, come si può risolvere lo scollamento tra mondo della scuola e mondo del lavoro?
«La formazione non è una panacea per i gravi problemi dell’economia e del mercato del lavoro, ma certo rappresenta una leva strategica per un sistema di relazioni industriali di tipo cooperativo e partecipativo che supera la mera logica distributiva e accetta la sfida dello sviluppo. A patto, ovviamente, che si tratti di una formazione nuova. Una formazione rivisitata che abbandoni le vesti di un sistema pubblicistico e autoreferenziale, come tale incapace di rispondere ai fabbisogni professionali delle imprese. Le linee guida del 2010 sposavano un concetto moderno di “apprendimento”, in linea con le indicazioni europee e le migliori pratiche a livello internazionale e comparato. Una formazione, cioè, che superi la tradizione scolasticistica e allarghi i propri confini riconoscendo anche nei contesti produttivi e nel lavoro sostanziali e imprescindibili occasioni di formazione e sviluppo delle competenze della persona. Questa idea porta con sé una rivoluzione nel modo di concepire e progettare le sedi dell’apprendimento e i percorsi educativi di istruzione e formazione. Sedi e percorsi che vanno pensati anche nella ottica della integrazione con il mondo del lavoro, considerando l’impresa non più come luogo dello sfruttamento, ma piuttosto come sede privilegiata per lo sviluppo e la tutela della persona».

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Pubblicato il 21 Marzo 2013
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