Perché i topi sono necessari alle ricerche sulla sindrome di Rett
Nei laboratori dell'Insubria si studia questa grave malattia. Gli scienziati Nicoletta Landsberger e Jacopo Meldolesi spiegano perché non esistono alternative alla sperimentazione animale
Giorgio Pini, direttore del Centro Rett della Versilia, definisce la Sindrome di Rett una "malattia vigliacca". Vigliacca, perché «lascia credere che le bambine che ne sono affette che cresceranno bene, poi proprio quando le bimbe si affacciano a comunicare con il mondo, un gene, fino ad allora silente, le rende autistiche, mute e gravemente disabili». Contro questa malattia la scienza ha fatto passi da gigante, ma non esiste attualmente una cura risolutiva. Grazie agli studi di ricercatori, come la dottoressa Nicoletta Landsberger dell’Università dell’Insubria (nella foto sotto insieme al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano), si è potuto comprendere meglio i problemi che caratterizzano la sindrome. E non solo, l’attività di ricerca ha permesso di individuare delle cure che si spera riescano migliorare la vita delle bambine malate e anche quella delle loro famiglie.
I laboratori universitari di Busto Arsizio, dove la professoressa lavora, hanno ottenuto l’autorizzazione all’allevamento di topi per la ricerca sulla “Sindrome di Rett” perché, come spiega la stessa docente: «per il momento non possiamo fare a meno di questo tipo di sperimentazione». Il "via libera" ottenuto dall’ateneo, ha scatenato però anche dure proteste da parte della Lav e degli animalisti.
Ma è possibile, ad oggi, trovare un’alternativa alla sperimentazione sugli animali e cosa comporterebbe? «I nostri studi – spiega la professoressa Landsberger – sono mirati a comprendere i meccanismi molecolari che si alterano durante la sindrome, causata dalle mutazioni subite dal gene mecp2, identificato come il responsabile della malattia. Cerchiamo dunque di capire quali ingranaggi, per usare una metafora, non funzionano più nei pazienti che ne sono affetti. Queste informazioni sono fondamentali per identificare il migliore approccio di cura da seguire. Attualmente gli studi che vengono effettuati sui topi hanno permesso di capire che esiste una possibilità di guarigione – e non è poco – ma abbiamo scoperto anche che, agendo in modo non corretto sulla sostituzione del gene malato, la sindrome si ripresentava con effetti controproducenti. Questi risultati sono stati raggiunti attraverso la sperimentazione sui topi geneticamente mutati ed è totalmente impensabile l’idea di effettuare queste sperimentazioni su delle bambine».
La posta in gioco, come è facile intuire, è molto alta: dare alle piccole pazienti e alle loro famiglie, la possibilità di una vita più serena. E la sperimentazione sui roditori, secondo i ricercatori, non è attualmente sostituibile. «A Busto – precisa la professoressa – non vengono al momento testati farmaci e tutta la sperimentazione avviene rispettando la rigida normativa che regola queste pratiche. Nessuno si diverte a utilizzare gli animali e a nessun animale viene impartita sofferenza gratuita. La comunità scientifica mondiale che lavora alla ricerca sulla Sindrome di Rett ha stabilito le linee guida per arrivare a testare una cura prima che arrivi nel corpo di una bambina e che inevitabilmente deve passare attraverso la sperimentazione sugli animali».
Secondo Jacopo Meldolesi, professore emerito dell’Università Vita -Salute San Raffaele di Milano, le critiche degli animalisti si basano su presupposti infondati. «Innanzi tutto – spiega – il termine vivisezione è privo di senso. Nei laboratori, si fa sperimentazione animale, che è un’attività con un significato preciso e regole rigide. Ricordiamo però anche, che la stragrande maggioranza degli esperimenti non è fatta con gli animali. Soltanto ad un certo punto, quando si deve capire come, ad esempio un nuovo farmaco, interagisce con le cellule di un organismo più complesso è inevitabile il loro utilizzo».
«Il tema è delicato – riconosce il professore – e non è semplice spiegare questi aspetti ma mi auguro anche che, con il tempo, riusciremo a far capire l’infondatezza di questo dibattito. Anche i ricercatori amano gli animali, non sono dei torturatori e non è una pratica di chi fa ricerca impartire sofferenze agli esseri viventi, ma dobbiamo anche capire di che cosa stiamo parlando. L’alternativa, se vogliamo metterla su un piano filosofico, sarebbe quella di riconoscere che uomini e animali hanno gli stessi diritti, sono sullo stesso piano. A quel punto però dovremmo rinunciare ai progressi della medicina o addirittura pensare che quello che viene scoperto in laboratorio sia poi applicato direttamente all’uomo, senza studi e approfondimenti intermedi. Difficile da credere, no?».
L’utilizzo della sperimentazione accompagna la medicina moderna fin dalla sua origine, e attualmente è alla base dell’attività di ricerca sulle malattie e sullo sviluppo dei farmaci. «Pensiamo agli antibiotici – conclude Meldolesi – che ogni quindici anni devono essere rivisiti in seguito allo sviluppo, oppure al lungo lavoro di preparazione e valutazione necessario per introdurre nuovi farmaci in grado di curare malattie che prima erano senza soluzione. La vita oggi è più lunga, certamente perché il rapporto dell’umanità con l’igiene è migliorato, ma non possiamo negare che un merito fondamentale sia dovuto ai progressi fatti in medicina. Anche su questo occorre riflettere».
Leggi anche – Non possiamo uccidere la speranza di guarire
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