Banche e piccole imprese, un rapporto da “sindrome di Stoccolma”

Presentati all'Università Bocconi di Milano i risultati di una ricerca sui servizi finanziari alle piccole imprese commissionata da Confartigianato Imprese Varese

Quando Confartigianato imprese Varese ha commissionato la ricerca sui servizi finanziari per le piccole imprese, le relative criticità e i possibili spazi di sviluppo, la prima reazione di Carmine Tripodi, docente dell’università Bocconi di Milano, è stata istintiva: «Ancora su questo tema?».

«In realtà – ammette lo stesso Tripodi – il rapporto tra banche e imprese non si esaurisce solo nel chiedere un mutuo al tasso migliore. Quindi nella lettura di questo rapporto, occorre partire da un’altra prospettiva». E la prospettiva non poteva che essere quella delle imprese stesse che fanno scelte diverse e assumono comportamenti contraddittori a seconda dei loro tratti distintivi: la dimensione (grande o piccola), il momento attraversato (di crisi o di successo), la capacità di stabilire partnership (isolate o parte di una rete) e la salute finanziaria (in equilibrio o indebitate fino al collo).

Delle oltre 300 imprese che hanno partecipato alla ricerca, l’80% sono “millennials”, cioè nate negli ultimi quarant’anni, la maggior parte sono associate e attive nell’utilizzo dei servizi finanziari (60%) offerti da Confartigianato, il 22% non ne hanno mai usufruito, il 18% almeno una volta in passato. Gli imprenditori alla plancia di comando hanno un’età media compresa tra i 40 e i 50 anni, in tasca un diploma di maturità (49%), un diploma di licenza media (39%), una laurea (7%) e una licenza elementare (6%). Il 71% del campione ha un numero di collaboratori che va da 1 a 5, il 21% da 6 a 10 e il 7% più di 11. Il fatturato medio è di 500 mila euro.

Pur non sapendo valutare i propri fabbisogni finanziari per mancanza di competenze specifiche, il 71% degli imprenditori interpellati si occupa in prima persona delle questioni finanziarie e anche quando decide di appoggiarsi a un consulente (8%) lo controlla da vicino. Il 53% non conosce la pianificazione finanziaria e il 23% redige un business plan solo quando lo richiede la banca. «C’è un’evidente contraddizione – spiega Tripodi – tra i bisogni reali e la limitatezza di quelli percepiti. È come se l’imprenditore guardasse questi problemi dal buco della serratura».

Ancora più contraddittorio è il modo con cui le imprese interpellate scelgono la banca per risolvere i loro problemi finanziari. La reputazione, le relazioni e il passaparola pesano meno rispetto all’esperienza e alla competenza. La contraddizione più evidente è però la seguente: se un artigiano deve pensare a un interlocutore privilegiato per la consulenza finanziaria non pensa a un consulente, ma alla banca, anche se poi ne parla male (non mi offrono quello che cerco 33%, non soddisfano sempre le mie aspettative 33%, non sono oneste e sincere 29%, non posso contare su di loro 26% e così via). Da una parte si vorrebbe maggiore comprensione dagli istituti di credito (71%), dall’altra non li si vuole tra i piedi (68%). I ricercatori parlano di “Sindrome di Stoccolma”, definizione usata nei casi in cui si stabilisce un rapporto di dipendenza tra vittima e carnefice, perché tra imprese e banche prevalgono elementi che non hanno nulla di razionale, proprio come accade nella famosa sindrome, ovvero: l’abitudine, la frequentazione e la mancanza di alternative. 

In questo rapporto “malato” esistono però interessanti spazi di segmentazione perché i comportamenti delle imprese sono tutt’altro che lineari. Al crescere delle competenze danno più peso alla professionalità, all’esperienza e alla consuetudine. Quando invece crescono di dimensioni in banca ci vanno volentieri, mentre pensano di poterne fare a meno, ogni qualvolta si sentono più sicure. «È un’analisi nuda e cruda di come siamo noi artigiani – ha commentato Davide Galli, presidente di Confartigianato Varese -. Spesso abbiamo la presunzione di avere tutte le competenze necessarie. Il vero problema è che noi siamo immersi nel lavoro e percepiamo il rapporto con le banche come un fastidio».

È significativo invece il rapporto con l’associazione di rappresentanza, decisamente più razionale perché viene preferita per professionalità, esperienza e consuetudine, piuttosto che per un’assidua frequentazione. Anche le imprese che non si rivolgono a Confartigianato e quindi non ne conoscono bene i servizi offerti ne hanno un’opinione positiva. Quelle invece in difficoltà e con più deboli conoscenze finanziarie si limitano a pensarla frequentemente come l’ideale interlocutore per risolvere i problemi.

Nonostante banca e impresa non possono prescindere l’una dall’altra, il fossato che le divide rimane piuttosto profondo: negoziano prodotti e servizi solo in caso di necessità e non ragionano in termini di partnership e quindi raramente condividono progetti. Per colmare questa distanza, secondo la ricerca, occorre che gli imprenditori, da una parte, rafforzino le proprie competenze per capire meglio i fabbisogni e per valutare adeguatamente prodotti e servizi e, dall’altra, imparino a utilizzare gli strumenti di pianificazione finanziaria sia nella gestione aziendale sia nella comunicazione con i soggetti esterni. In questo modo avrebbero più capacità di previsione, più facilità di comprensione per le banche e una migliore reputazione.

Nel processo di cambiamento le banche non possono limitarsi a guardare ma devono partecipare attivamente alla crescita di consapevolezza delle imprese, aiutandole a rafforzare le competenze necessarie. A loro volta però devono sforzarsi di entrare in azienda per conoscere processi, prodotti e imprenditori. Solo così potranno riconquistare la loro fiducia.

Michele Mancino
michele.mancino@varesenews.it

Il lettore merita rispetto. Ecco perché racconto i fatti usando un linguaggio democratico, non mi innamoro delle parole, studio tanto e chiedo scusa quando sbaglio.

Pubblicato il 28 Gennaio 2016
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