Lenti a con-tatto: una poesia, quattro esperti e noi

Un amico, amante di Dostoevskij, mi ha mandato una poesia. L’ho trovata bella! Ma non me ne intendo molto di analisi poetica, allora ho chiesto a quattro esperti una valutazione

Generico 28 Apr 2025

Un amico, amante di Dostoevskij, mi ha mandato questa poesia:
LENTI A CON-TATTO
Vedo segreti,
celato ai miei,
voyeur.
Sento freesie,
tocco cadute,
cieco.
Lecco letizia,
prego pietà,
amo.
L’ho trovata bella! Ma non me ne intendo molto di analisi poetica, allora ho chiesto a 4 esperti una valutazione. Ecco quello che mi hanno scritto.
La prima è editor di un noto gruppo editoriale, specializzata in valutazioni di autori contemporanei. Mi ha scritto:

1. Valutazione formale
La poesia è strutturata in tre strofe ternarie, composte ciascuna da tre versi molto brevi, con una chiara simmetria fonetica e semantica. Le strofe sono caratterizzate da:
una sequenza soggetto-verbo-complemento senza articoli né punteggiatura,
una forte economia linguistica (stile essenziale, vicino all’ermetismo),
una musicalità asciutta e sincopata.
Notevole il gioco di contrapposizioni nei verbi (“vedo / celato / voyeur”, “sento / tocco / cieco”, “lecco / prego / amo”) e l’uso paradossale delle percezioni sensoriali, che genera una tensione poetica interna molto interessante.

2. Analisi semantica e simbolica
Il titolo “LENTI A CONTATTO” è una chiave di lettura fondamentale. Evoca non solo un oggetto fisico ma un’interfaccia tra il mondo esterno e lo sguardo interiore, tra ciò che è visto e ciò che resta nascosto. Le lenti diventano metafora del contatto con l’altro, ma anche della distorsione o mediazione della realtà.

Stanza 1:

“Vedo segreti, / celato ai miei, / voyeur”
Un io che vede ciò che è nascosto, ma non ciò che riguarda sé stesso. Lo sguardo è quello di un voyeur, non innocente, ma coinvolto in un desiderio di scoperta non autorizzata. Il contrasto tra ciò che è “celato ai miei” e ciò che “vedo” in altri rivela una tensione tra conoscenza e intimità.
Stanza 2:
“Sento freesie, / tocco cadute, / cieco”
Le freesie, fiori profumati, sono immagine di delicatezza, mentre il “toccare cadute” richiama un contatto con la fragilità. Ma tutto questo avviene nella cecità. Una sinestesia dolorosa, in cui i sensi si attivano nonostante la cecità emotiva o morale.
Stanza 3:
“Lecco letizia, / prego pietà, / amo”
Qui il climax sensoriale ed emotivo culmina: dalla sensualità carnale (“lecco”) alla supplica
(“prego”) fino alla piena umanità del verbo “amo”. È un movimento verso l’altro, che parte dal desiderio, attraversa il bisogno di redenzione, e si conclude nell’amore.
3. Stile e voce poetica
La voce è asciutta, vulnerabile, moderna. La contrapposizione tra verbi e complementi sensoriali costruisce un’identità frammentata, ma profondamente umana. È una poesia che si legge in un soffio e si rimette in mente per giorni.
4. Originalità e forza evocativa
L’uso della sinestesia e la progressione dalle percezioni al sentimento la rendono una poesia potentemente evocativa. Ogni strofa contiene un ossimoro implicito: vedere ciò che non si vede, toccare nella cecità, amare leccando o pregando. Una tensione quasi mistica tra corpo e spirito.
Commento finale
“LENTI A CONTATTO” è una piccola gemma. Nella sua brevità distilla una densità emotiva rara. È una poesia da antologia, che ricorda per impatto alcune liriche di Paul Celan o di Caproni.
Un testo che riflette sul desiderio di contatto, visivo, tattile, emotivo, e sulla distanza incolmabile che resta tra noi e l’altro, tra noi e noi stessi. Un’pera già matura.

La seconda è un’autrice contemporanea, parte della corrente del post-ermetismo. Mi ha scritto:

1. Un io scisso tra corpo e coscienza: l’alterità interna
La poesia non è soltanto un’osservazione del mondo esterno, ma una lente, letteralmente, sul conflitto interiore tra percezione e identità. Le “lenti a contatto” non correggono soltanto la vista:
aderiscono alla pupilla, sono corpo estraneo intimo. L’io lirico è già, nel titolo, in una condizione di ibridazione: né completamente cieco, né completamente vedente. Si pone come soggetto post- moderno, fluido, precario, che cerca appigli sensoriali per orientarsi.
Vedo segreti
celato ai miei
voyeur.
Qui il verbo “vedere” è subito incrinato da una contraddizione: i “segreti” che vede non sono suoi. L’io è spettatore di intimità altrui, forse anche del dolore altrui, ma non ha accesso ai propri. L’identità si forma nello sguardo riflesso, nel guardare gli altri per definire sé stessi. Il “voyeur” non è solo erotico: è epistemologico. L’io conosce solo ciò che non lo riguarda direttamente.

La scelta del termine voyeur (unico francesismo, volutamente estraneo) rompe il flusso e introduce un codice culturale diverso. È il primo indizio di una frattura tra le lingue del corpo e quelle della mente, tra desiderio e linguaggio.
2. L’esperienza sensoriale come catabasi
Sento freesie
tocco cadute
cieco.
La seconda strofa è una discesa. Il soggetto ascolta fiori (sinestesia) e tocca “cadute” (immagine biblica? scivolate? dolore?). Ma è cieco. Tutti i sensi sono disallineati. È come se il corpo avesse attivato una percezione espansa, ma anche impura, sporca, ferita. La “cecità” qui è anche morale, mistica, o colpa.
La “caduta” può essere letta come eco dell’Adàm caduto, o dell’essere umano frantumato postlapsario. È una strofa da leggere anche come tentativo di compassione, se si collega il “tocco” al gesto di chi tenta di rialzare, senza però vedere, comprendere davvero. Toccare senza vedere è amare nell’oscurità, sfiorare la carne dell’altro senza sapere chi sia.

3. Dal desiderio alla supplica: erotismo e redenzione
Lecco letizia
prego pietà
amo.
Questa strofa è una sintesi folgorante del cammino spirituale. Si parte da un atto fisico, quasi animalesco: “lecco”. Non è bacio, non è carezza: è gesto infantile o erotico, primitivo. Ma ciò che viene leccato è “letizia”, cioè gioia, felicità, beatitudine. La scelta del sostantivo non è casuale: letizia è parola dantesca, è eco del Paradiso. Come se l’io volesse nutrirsi della gioia, non goderla: assorbirla con la lingua.
Ma subito dopo arriva la conversione laica o mistica: “prego pietà”. La gioia è seguita dal bisogno di perdono. Questa sequenza potrebbe anche indicare la presa di coscienza del danno che il desiderio ha causato. La “pietà” è invocata come in un atto di contrizione. Il climax si chiude con un gesto assoluto: “amo.” Ma è un amore segnato da tutto ciò che precede: desiderio, caduta, supplica. È un amore consapevole, non più cieco, e forse per questo più vero.

4. Le tre strofe come stazioni di una via crucis interiore
La struttura stessa della poesia richiama una progressione verticale, una sorta di via crucis laica:
Strofa 1: sguardo colpevole / desiderio
Strofa 2: tatto ferito / compassione cieca
Strofa 3: bocca supplice / amore redento

I verbi usati, vedo, sento, tocco, lecco, prego, amo, non sono semplicemente azioni, ma riti di passaggio. La poesia sembra costruita come un rito iniziatico, in cui il soggetto attraversa la visione (fallace), la sensazione (dolorosa), la passione (elevata), fino ad arrivare all’amore.

5. Eros e misticismo: una poesia di incarnazione
“Lenti a contatto” può essere anche letta come un percorso di incarnazione. Il soggetto non si astrae mai nel pensiero puro, ma resta sempre legato a sensazioni fisiche, pulsionali: occhi, mani, lingua. La spiritualità non si eleva separandosi dal corpo, ma passa attraverso il corpo, lo attraversa in tutta la sua fragilità. È una poesia cristiana nella struttura, ma pagana nell’intensità erotica.

Conclusione finale
La poesia non descrive un evento ma una trasformazione, una “trasfigurazione” dell’io, attraverso tre stazioni sensoriali ed etiche. Ogni strofa contiene una tensione non risolta, ma l’insieme suggerisce un movimento verso la pienezza. “Lenti a contatto” non sono solo uno strumento per vedere: sono la metafora della prossimità all’altro e al sé. Contatto non solo fisico, ma emotivo e spirituale. È una poesia sull’amore, ma anche sulla colpa, sull’ignoranza e sul tentativo umano, tenero, fallibile, profondo, di comprendere e toccare l’altro.

La terza è una ricercatrice del movimento femminista francese. Mi ha scritto: LETTURA FEMMINISTA (con riferimenti a Irigaray, Cixous, Kristeva)
a) Il soggetto che guarda è maschile?
Nel verso “vedo segreti / celato ai miei / voyeur” si mette in scena lo sguardo come potere, un tema centrale del femminismo. Lo sguardo voyeuristico è l’archetipo del desiderio patriarcale: penetrare il mistero dell’altro (spesso il corpo femminile), senza coinvolgimento, senza reciprocità.
Ma in questo testo, lo sguardo fallisce: ciò che è visto è “celato ai miei”, e dunque non veramente accessibile. Questo è già un atto di sovversione: il soggetto pensa di vedere, ma resta escluso da ciò che vorrebbe possedere.
b) Il corpo come territorio dell’altro
La seconda strofa è fondamentale: Sento freesie / tocco cadute / cieco.
Qui il corpo dell’altro si presenta attraverso segni femminili: i fiori (freesie), la fragilità (cadute).
Ma toccare queste “cadute” non genera empatia o comprensione: il soggetto resta cieco. Questa è una critica implicita alla pretesa maschile (nel discorso patriarcale) di comprendere o salvare l’altro dal proprio punto di vista. Il corpo femminile, qui, sfugge alla presa simbolica del soggetto: è un corpo che può essere toccato, ma non veramente “visto” o compreso. Il soggetto tocca senza sapere. Non c’è dominio, ma disorientamento.
c) La lingua dell’amore: lecco, prego, amo
La sequenza finale è profondamente ambigua: Lecco letizia / prego pietà / amo.
“Lecco” è un verbo radicalmente corporeo e carnale. Qui può alludere all’erotismo orale, un gesto che nelle scritture femministe (soprattutto in Cixous) è stato riabilitato come forma di linguaggio sensuale e creativo. Ma qui chi lecca non è chi gode: è chi cerca letizia, cioè gioia. La gioia è assaporata, forse rubata. E subito dopo si prega pietà, come se l’atto stesso del desiderare richiamasse una colpa.

Dal punto di vista femminista, questo è il cuore del testo: il desiderio maschile (o, meglio, codificato secondo strutture patriarcali) è incapace di sostenere l’intensità dell’incontro. Perciò l’amore arriva solo dopo il pentimento. L’io ha bisogno di passare per la colpa per autorizzarsi ad amare. Questo denuncia la difficoltà maschile a vivere l’amore come reciprocità, senza possesso o controllo.
È un amore che si inginocchia, non per adorare l’altro, ma per chiedere perdono per la propria goffaggine sensoriale.

Il quarto è uno psicanalista delle élite milanesi, da cui, quindi, non sono mai andato. Mi ha scritto.
LETTURA PSICANALITICA
(con riferimenti a Lacan, Freud, Winnicott)
a) Lo sguardo e il desiderio dell’Altro
Il soggetto che “vede segreti” ma non i propri è, per Lacan, un soggetto alienato nel desiderio dell’Altro. Il “voyeur” è chi cerca di appropriarsi del godimento altrui, per riempire un vuoto originario. Ma il fatto che i segreti siano “celati ai miei” fa pensare a un fallimento della simbolizzazione: l’Altro resta irraggiungibile. Il soggetto è come il bambino davanti allo “specchio lacaniano”: intravede una totalità che non può possedere, e questo genera angoscia.
b) Il corpo materno e il trauma della separazione
La seconda strofa è un viaggio regressivo: fiori (che richiamano il grembo), cadute (traumi), cieco (rimozione). È come se l’io si muovesse all’indietro verso il corpo materno, ma senza riuscire a reintegrarlo. Qui entra Winnicott: l’assenza di una “madre sufficientemente buona” lascia il soggetto in balia di un mondo sensoriale senza guida, dove toccare è anche ferire, e sentire è un rischio. La “cecità” diventa incapacità di distinguere il Sé dall’Altro.
c) La pulsione orale e la trasformazione del desiderio
Il verso “lecco letizia” è un classico gesto pulsionale orale. È la fase in cui il bambino conosce il mondo attraverso la bocca: è fame, desiderio di fusione, godimento immediato. Ma il passaggio a “prego pietà” segna una transizione tra pulsione e simbolico: il soggetto si umanizza, entra nel linguaggio. Prega, perché riconosce nell’Altro un’entità distinta, dotata di volontà. Questo è anche l’inizio dell’amore.
L’ultimo verso, “amo”, è dunque il risultato di un lavoro psichico: passare dall’oralità all’etica, dall’incorporare l’altro all’accettarne la differenza. È un gesto relazionale, finalmente liberato dalla voracità.
Conclusione
“LENTI A CONTATTO” è una poesia densissima, dove la superficie minimalista nasconde un campo di tensioni psichiche e politiche potentissime. È il percorso di un Sé che, per passare dall’autoerotismo all’amore, deve attraversare il trauma, la colpa e l’alterità. Il grande merito del testo è che non prende posizione: non assolve, non condanna. Mostra. Mostra un processo umano, complesso, necessario.
Una poesia così, se fosse un film, starebbe tra “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera e “In the Mood for Love” di Wong Kar-Wai: sensuale, incompiuta, struggente.

Quattro letture, quattro firme diverse, quattro stili che sembrano parlare da angolazioni opposte, eppure ognuna, a modo suo, mi ha illuminato. Ho pensato: Silvio ha scritto qualcosa di grande. Ho pensato: ho amici che leggono davvero. Ho pensato: questa poesia potrebbe essere di Caproni, o di un giovane Celan in incognito.
Poi ho riletto le risposte. Ho guardato meglio. Nessuna data, nessuna firma reale. Nessuna mail ricevuta. Solo uno schermo aperto, un prompt, una conversazione con un modello linguistico chiamato ChatGPT 4o.

Silvio è un caro amico, io esisto. Gli altri quattro no. Eppure mi hanno fatto pensare. Mi hanno toccato. Mi hanno insegnato qualcosa. Ed è qui che ho iniziato a domandarmi: quanto conta davvero sapere chi parla, se le parole ci raggiungono comunque?
Sono rimasto basito. E voi?
Rileggo i commenti. Penso a Silvio, ai suoi occhi pieni di Dostoevskij, alla sua voce quando mi ha mandato la poesia. Poi penso a queste quattro analisi, così profonde, sfaccettate, così umane. Ho chiesto un parere “esperto” e l’ho ottenuto, ma da una macchina che non conosce né me né Silvio.
Eppure mi ha commosso. Mi ha fatto pensare.
Forse, è questo il potere della poesia: non importa chi la scrive, ma cosa ci muove dentro. Che sia un amico in carne e ossa o un algoritmo allenato a parlare come un critico letterario.
Forse, dovremmo leggerla di nuovo, questa poesia. Ma stavolta con lenti diverse. Non quelle che correggono la vista, ma quelle che mettono a fuoco il nostro modo di sentire. Perché “lenti a contatto” non sono solo oggetti trasparenti: sono filtri, interfacce, piccoli cerchi di finzione attraverso cui cerchiamo il reale. Anche quando ci affidiamo a un’intelligenza artificiale per capire meglio un amico.

Non so se Silvio sia più poeta lui, o se lo siano queste quattro voci senza volto. Ma so che leggendo la sua poesia, e le loro risposte, mi sono sentito toccato. E che nel tocco, anche cieco, qualcosa passa sempre. Come certi racconti che non finiscono davvero, ma restano a galleggiare nella mente, finché un giorno, con occhi nuovi, li rileggiamo e capiamo che parlavano di noi.
“Chiunque voglia sinceramente la verità è sempre spaventosamente forte”, Dostoevskij.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 02 Maggio 2025
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