Stefano Bruno Galli: “La Liberazione tra memoria rossa, nera e grigia”
Pubblichiamo in forma integrale la risposta di Stefano Bruno Galli - docente di storia delle dottrine politiche alla Statale di milano e già assessore alla cultura di Regione Lombardia - alla lettera del lettore Massimo Cattin, che si lamentava della sua prolusione nel corso delle celebrazioni del 25 aprile a Gallarate

Riceviamo e pubblichiamo in forma integrale la risposta di Stefano Bruno Galli alla lettera del lettore Massimo Cattin, che si lamentava della sua prolusione nel corso delle celebrazioni del 25 aprile a Gallarate.
Galli è professore di Storia delle dottrine e delle istituzioni politiche nell’Università degli Studi di Milano; ha insegnato anche all’Università degli Studi dell’Insubria – polo di Como, all’Università “Luigi Bocconi” di Milano, all’Università degli Studi di Siena – polo di Arezzo. Studioso di autonomia e regionalismo, federalismo e costituzionalismo, collabora con diversi quotidiani e periodici e dal 2018 al 2023 è stato assessore all’Autonomia e Cultura della Regione Lombardia. Dal 2024 è presidente del MuSe, il museo della scienza di Trento.
Caro direttore,
mi dispiace che il signor Massimo Cattin sia rimasto deluso dal mio intervento di venerdì scorso a Gallarate, nella circostanza del 25 aprile. E tuttavia, di fronte alla lettera che Le ha inviato e che è stata pubblicata su Varesenews, ci tengo a fare qualche precisazione, senza – beninteso – inseguire gli applausi ex post di Cattin. È ovvio che, nei dieci minuti che mi erano stati concessi per l’intervento, non potessi essere rigoroso e preciso come in una conferenza o in una lezione universitaria.
Il 25 aprile di ottant’anni fa, il comando del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclamò l’insurrezione generale. E diede l’ordine alle forze raccolte nel Corpo Volontari della Libertà di occupare le prefetture delle principali città del Nord (Genova, Milano e Torino), prima dell’arrivo delle truppe Alleate. Certo, non ho citato il proclama «Arrendersi o perire!», e chiedo venia. L’ordine dell’insurrezione, a Milano, venne diramato nella serata del 25 aprile. E Mussolini decise di partire subito alla volta della prefettura di Como, città dove arriverà verso le 22 e 30, sulla quale stavano convergendo numerose formazioni fasciste, coordinate da Alessandro Pavolini. Le fonti non sono univoche, talune parlano di 6-7mila uomini, talaltre di 20-22mila.
Gli aderenti al movimento del Cisalpino, guidato da Tommaso Zerbi e Gianfranco Miglio, usarono toni pesanti. E scrissero che quel giorno «la feccia dello squadrismo fascista ripiegava su Como. Eran grappoli di “ghigne” patibolari, armate fino ai denti e accatastate su camion carichi di prede. Rifluivano a Como dal Piemonte, dal Genovesato, dall’Oltrepò, dal Veneto, dalla “Bassa” lombarda. Il 26 aprile forse 5000 di siffatte “ghigne” bivaccavano su lunghe teorie di camion lungo i viali della città murata e nei sobborghi. Una loro armatissima colonna di circa 2 chilometri, proveniente dal basso Po e dal Mantovano, si era attestata alle porte di Como, dopo aver forzato il passaggio dal Bresciano, dal Bergamasco e dal Lecchese. Altre colonne in ripiegamento erano segnalate da Busto e da Saronno». La città lariana – compresa la prefettura – rappresentava pertanto una realtà in qualche modo protetta e sicura, marginale rispetto alle dinamiche dell’insurrezione di Milano e di tutta la valle del Po.
Non sono assolutamente d’accordo con l’affermazione di Cattin, quando scrive che «nessuno si è mai intestato e investito di meriti particolari della lotta di Liberazione dai nazifascisti». Questo non è vero! La festa della Liberazione ha subito, ogni anno, forti ideologizzazioni e partitizzazioni nel dibattito pubblico. Per approdare a una memoria davvero condivisa, bisogna riconoscere che alla Liberazione contribuirono senza dubbio i socialisti e i comunisti, ma anche i liberali, i cattolici, gli azionisti, gli anarchici e finanche i monarchici. E tuttavia, ogni anno – in occasione del 25 aprile – si è sempre scatenata un’aspra competizione della memoria, tra una memoria «rossa» e una memoria «nera». Una competizione che ha letteralmente schiacciato e confinato nel dimenticatoio la memoria «grigia», quella di chi scelse di non scegliere e di non schierarsi. Furono davvero in molti gli italiani inquadrabili nella «terza» Italia, quella riconducibile alla memoria «grigia». Che rappresentava e rappresenta – ancora oggi – la stragrande maggioranza della popolazione. Penso che solo una democrazia matura, caro direttore, abbia il coraggio e la forza di fare i conti sino in fondo con il proprio passato, superando gli steccati ideologici e partitici. Matura, appunto.
Rilevo infine una profonda contraddizione nell’ultimo capoverso della lettera di Cattin. Non si può elogiare l’azione del giovane Miglio e poi censurare quanti – in un momento decisivo come quello vissuto dal Paese tra il 1943 e il 1948 – nella prospettiva del cambio della forma di Stato (dalla monarchia alla repubblica) e anche della forma di governo (dall’autoritarismo dittatoriale alla democrazia), guardarono al federalismo. Un minimo di coerenza, suvvìa. A Gallarate ho ricordato Émile Chanoux e la Carta di Chivasso, Norberto Bobbio e Gli Stati Uniti d’Italia di Carlo Cattaneo, Zerbi e Miglio con Il Cisalpino. Avrei potuto fare riferimento anche a Emilio Lussu: con deliziosa ironia paragonò il tenue regionalismo uscito dalla Costituente a un gatto, felino appartenente alla stessa famiglia del leone, che rappresenta il vero federalismo. Avrei potuto citare Antonio Giolitti, che curò il testo su Johannes Althusius di Otto von Gierke; Silvio Trentin, che nel 1945 diede alle stampe Stato, Nazione, Federalismo; Adriano Olivetti, che in quello stesso anno pubblicò L’ordine politico delle Comunità. L’imprenditore eporediese pensava a un modello di federalismo su base comunitaria territoriale, come progetto politico per l’avvenire del Paese. Ciò conferma come la prospettiva federalista in quel momento venisse percepita come la forma più alta e più concreta per scongiurare nuove derive totalitarie e dittatoriali.
Cordialmente,
Stefano Bruno Galli
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