This Gelo: “Il rap in dialetto è stata una scommessa”
L'intervista a ThisGelo, rapper varesino che nel nuovo album porta il dialetto sul beat per parlare di identità, collaborazioni e scelte artistiche. Una voce che racconta il presente, partendo da sé

Nel suo nuovo disco Vares’hot, ThisGelo mescola rap e dialetto varesino, raccontando senza filtri un’identità che si muove tra generazioni, radici (radiis), ironia e voglia di stare dentro al presente, oltreché sul palco.
Classe 1989, Lorenzo Pellegrini – questo il suo nome all’anagrafe – ha 35 anni e una voce, bosina, che non ha paura di mettersi in discussione. È venuto a trovarci a Materia, la sede di VareseNews, dopo l’uscita dell’album per parlare di scrittura, suono e possibilità.
Di seguito, l’intervista
L’album è stato accolto molto bene. Te lo aspettavi?
«Sono contento che sia stato apprezzato per la sua varietà musicale. Ogni base ha un’identità diversa, ogni brano un mood proprio. Sono piaciuti sia gli inediti sia le nuove versioni, come 4 di Ball, dove c’è una strofa in più, o Sempar Lü. Il pezzo che percepivo come più “rischioso” era Sacro Munt, è una love song in dialetto. Non sapevo se sarebbe stata recepita, invece è diventata una delle più apprezzate».
Lo abbiamo visto a Materia, un po’ sui palchi della provincia, e anche sui social. Per fare hip-hop, una cultura solitamente associata a un contesto giovanile, hai davvero un pubblico multigenerazionale.
«Mi scrivono fan giovani, dicendo di aver fatto ascoltare brani ai loro nonni, che sono diventati a loro volta miei fan (cosa che conferma anche il nostro videomaker Alessandro Paolini, ndr.). È una situazione abbastanza unica avere un pubblico così tanto vario. Lo vedo anche nei live, dove sono presenti e arrivano anche persone di tutte le età, anche chi non diresti che ascolta rap».
Com’è nato l’album? Vares’hot è un gioco di parole che avevi già utilizzato prima dell’uscita dell’album.
«Vares’hot era nato come format l’anno scorso. Avevo già fatto uscire cinque episodi, poi ho sentito il bisogno di tirare le somme. Inizialmente doveva essere un EP, ma man mano che aggiungevo brani è diventato un album vero e proprio».
Chi ha lavorato con te alla parte musicale?
«Il progetto è stato interamente curato da Massa, il mio producer, che anche prodotto la maggior parte dei brani all’interno dell’album. Ci siamo conosciuti l’anno scorso e insieme avevamo lavorato a Radiis e Brööd. È venuto naturale includerlo in questo progetto. Con lui ho registrato tutte le tracce, cosa che abbiamo fatto a casa mia e poi masterizzate in studio. Oltre a Massa ha partecipato anche mio cugino, Luffa, direttamente dal Senegal: mi ha mandato la base di Mucala. I ragazzi di Blackworld Empire hanno invece lavorato su Tel Chi. Nel disco compare anche Marco Platini, che, con il suo nuovo progetto Core Mato, ha prodotto invece la base di VAaCiapàiRatt. Spero di non aver dimenticato nessuno».
Quando si pensa a un disco di un rapper, ingenuamente, ci si immagina solamente il cantante, chi ci mette la faccia. C’è uno “storytelling” spesso individuale, legato all’artista. Il progetto, appunto, sembra molto collettivo, anche nei videoclip. Come sei entrato in contatto con loro?
«Sono “venute fuori” col tempo, per esempio con BlackWorld suonando in giro, mentre con Massa aveva visto i miei video su Instagram e ci siamo sentiti. Tendenzialmente cerco di lavorare e circondarmi di persone con cui ho già un rapporto. Persone che stimo, a livello personale e artistico, mi viene in mente Mattia Tavani, bassista dei Belize. Mi aveva prodotto il mio primissimo EP e gli ho chiesto di farmi fare i master del disco. Il mio è un progetto inclusivo, da tutti i punti di vista. Negli argomenti trattati ma anche anche nel coinvolgimento stesso delle persone dietro le quinte. E così anche nella realizzazione dei videoclip».
A proposito di inclusione, e dunque, se vogliamo, anche di politica: mi ha colpito uno dei promo del disco, che richiama, o forse sarebbe meglio dire parodizza, il discorso di Palazzo Venezia. Come è nata l’idea?
«Sì, solitamente ho un’idea che condivido con persone con cui mi fido, per ricevere feedback e altri input. Anche per i videoclip. In questo caso c’è stato un incrocio di idee… ed è nato così. Penso sia abbastanza palese che sia satirico, anche per l’utilizzo del dialetto. Chi però non ha capito l’intento è TikTok, che mi ha rimosso il video».
Come stanno andando i live?
«Dall’uscita del disco finora ho fatto due live, entrambi a Milano. La risposta del pubblico è stata molto buona. Sono contento per l’apprezzamento di Sacro Munt, un brano che pensavo quasi di portare sul palco. Poi il risconto per i vecchi singoli è sempre positivo, ormai chiamo quelle canzoni “i classiconi” (ride, ndr.). Prima dell’uscita del disco non avevo abbastanza pezzi in dialetto per la scaletta, quindi mettevo anche i brani in italiano. C’è chi mi ha urlato da sotto il palco “dialetto, dialetto!”. In questo momento, con l’uscita di Vares’Hot, ci tenevo che i live fossero completamente in dialetto. Con l’uscita dell’album l’italiano è qualcosa che ho messo proprio da parte, ma credo che ritornerà».
Qual è la traccia del disco che senti più “tua”?
«Erburin, la traccia con cui si chiude l’album. La lingua utilizzata è sempre il dialetto, ma direi che è la canzone più simile a quelle che facevo già prima, sia a livello di mood e di significato. Canzone che parlano della mia storia familiare e alcuni aspetti della mia vita che ancora col dialetto non avevo toccato. Penso di essere riuscito a trasmettere un qualcosa che col dialetto non ero ancora riuscito né pensavo di poter trasmettere».
Molti ascoltando le tue canzoni su Spotify vorrebbe poter leggere i testi: è un modo per avvicinarsi al dialetto, che è una lingua più parlata che scritta. Li pubblicherai?
«I testi “ci sono” ed ero pronto già a fare questo lavoro di sincronizzazione, ma ci sono stati problemi di caricamento con l’app. È un qualcosa che mi hanno già chiesto diverse persone, i testi del brano arriveranno. Avrei voluto mettere anche le traduzioni dei testi ma questo sulle piattaforme di streaming musicale non si può fare. La sincronizzazione deve essere parole per parola. Invece, nei video di Youtube questo problema non si pone e in descrizione sono presenti i testi e le traduzioni in italiano delle canzoni».
Il dialetto è un tuo punto di forza, ma può diventare un limite. Non tutti lo conosco, e tu potresti rimanerne “intrappolato”. Sei d’accordo? La ritieni un’arma a doppio taglio?
«È un’etichetta, un limite ma anche un punto di forza – risponde cambiando applicando la proprietà commutativa agli “addendi” della domanda -. Il rischio sicuramente è quello di non poter riuscire arrivare proprio a tutti. Penso comunque che sia una cosa molto forte, molto identitaria. A Napoli non è raro fare rap in dialetto, ed è qualcosa che tutti ascoltiamo. Alla fine mi sono sentito di prendere questa “sorta di rischio”: è questo il momento per farlo. Per il futuro penso che cambierò un po’ qualcosa e integrare l’italiano col dialetto».
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