“Scampia è tutt’altra storia, ma bisogna sempre denunciare”
La testimonianza di don Aniello Manganiello al convegno di Confesercenti sul tema delle mafie. L’ex parroco di Scampia ha criticato "i professionisti della legalità che da dietro le scrivanie scrivono libri a fiume”
C’erano due modi di fare il parroco a Scampia e don Aniello Manganiello ha scelto il secondo, quello dell’“incarnazione”: «Io credo in questa parola, che vuol dire entrare nel tessuto connettivo della gente, camminare con loro. E così ho fatto, non ho chinato la testa».
Dal 1994 al 2010 don Aniello è stato parroco di Santa Maria della Provvidenza nel rione Don Guanella a Scampia, periferia Nord di Napoli. Prete scomodo, più volte minacciato dai boss, oggi è intervenuto a Varese nell’ambito del convegno organizzato da Confesercenti sul tema delle mafie.
Quando il 20 settembre del 1994, Don Aniello, archiviato noviziato e studi di liceo a Barza di Ispra, arriva a Scampia, ha nella mente i racconti che i fratelli maggiori riportavano tornando da Secondigliano, quando ci andavano per lavoro, prima di emigrare in Germania: zone dal furto facile e dalla poca sicurezza. «Erano paure da ragazzino, ma all’inizio quando dovevo attraversare piazza Garibaldi mi sentivo seguito da ladri e scippatori. Venivo da Roma, dove ero stato assegnato ad un quartiere borghese alle spalle delle porti vaticane».
«A Scampia mi ci volle poco tempo per prendere atto delle violenze che i camorristi esercitavano nei confronti della popolazione. Rubavano l’acqua alla parrocchia: quelli erano i soldi che il Comune ci dava per i nostri minori a rischio ed erano quelli che si raccoglievano la domenica in chiesa. Non ci stetti a subire questi soprusi: affrontai i malavitosi e ingiunsi loro di tagliare gli allacci. Diedi loro un ultimatum, ma alla scadenza nulla era scambiato. Dopo 15 giorni gli allacci li tagliai io: e la bolletta passò da 5 milioni a poco più di duecento mila lire».
Don Aniello è stato a fianco della gente di Scampia non solo invitando a denunciare e denunciando in prima persona, ma nella lotta: «Ho dato viveri e sostegno economico. Ho compiuto un’opera educativa nei confronti delle giovani generazioni aprendo loro la parrocchia affinchè diventasse la loro casa».
In 16 anni si è scontrato con tutti, autorità, forze dell’ordine, gerarchie ecclesiastiche. Che, a maggio 2010, nonostante le raccolte firme, le fiaccolate e le petizioni di duemila fedeli, lo hanno trasferito al quartiere Trionfale di Roma, ufficialmente per “motivi di avvicendamento”. Dopo il clamore suscitato dal suo trasferimento, si è preso un anno sabbatico.
«Per battere la camorra bisogna avere il coraggio di rischiare, il coraggio della verità, della denuncia. E purtroppo bisogna rischiare o poco o tanto della propria vita». «Certo – continua Don Aniello – anche le istituzioni devono fare uno sforzo per la legalità: io denunciavo, ma quando tra gli eletti c’erano loro, i camorristi…E anche all’interno delle forze dell’ordine bisogna fare un distinguo: c’è un manipolo di coraggiosi che rischia ogni giorno, i mediocri che non fanno niente e i corrotti. Le istituzioni sono infarcite di camorristi, ai livelli alti la corruzione dilaga, vedi i casi di Romano, Papa, Milanese: e allora come la vogliamo combattere la camorra? Sono critico anche nei confronti dei professionisti della legalità che scrivono libri a fiume, invitando ad informare e denunciare, ma da dietro la scrivania. Credo che anche Roberto Saviano negli ultimi tempi abbia smarrito il compito della denuncia. Insieme denuncia e azione sono l’arma vincente».
La camorra tiene sotto scacco Scampia con una precarietà cronica: in città il 70% della popolazione è disoccupata. Le forze dell’ordine possono intervenire solo dopo che qualcuno sporge denuncia. E anche i convertiti, come Davide Cerullo, Tonino Torre, Tonino Roberti, si ritrovano soli, «poveracci, obbligati a elemosinare». «Al sud tutti hanno responsabilità – conclude don Aniello – le istituzioni, le agenzie educative, le forze dell’ordine. La chiesa ne ha una grossa, perché non ha fatto opera educativa e assume alcuni comportamenti che gettano un’ombra inquietante sull’impegno autentico e vero che una parte della chiesa porta avanti. La chiesa deve combattere, perché la chiesa non ha nulla da difendere, è solo mandata a difendere gli uomini».
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