Liberi di morire: le ragioni dell’eutanasia al salone Estense

Beppino Englaro, Carlo Troilo, Marco Cappato al salone estense hanno parlato di eutanasia: portando dati scientifici, ma anche drammatiche esperienze personali

un immagine dell'incontro "Liberi di Morire"Avvicinarsi al tema della “dolce morte”, cioè dell’eutanasia, è spesso un percorso che origina da esperienze personali. È stato così, come noto, per Beppino Englaro, ma è stato così anche per Carlo Troilo che ha iniziato a impegnarsi in questa battaglia dopo il suicidio del fratello, malato terminale che scelse di uccidersi in modo doloroso e drammatico proprio per non avere avuto la scelta di un percorso eutanasico che sarebbe stato possibile nella gran parte delle nazioni europee. Inizia con questo ricordo personale la conferenza “Liberi di morire(nella foto di Mauro Quercia, i partecipanti) promossa da Uaar Varese, Arci Varese e Associazione Luca Coscioni presso il salone Estense di Varese.

L’inizio con il ricordo della tragedia personale non è solo rilevante nello spiegare la genesi di quei singoli casi ma anche per introdurre un problema sociale ed etico reale e Troilo lo delinea subito: sono quasi duemila ogni anno (fonte Università Cattolica) i malati terminali che si suicidano in Italia mentre nessuno è in grado di stimare i casi di eutanasia praticati in modo silente, spesso per iniziativa del malato, ma nondimeno spingendo nell’illegalità pazienti, medici e familiari, oltre che rendendo difficile la necessaria assistenza.

Beppino EnglaroMa i casi personali sono anche i motori da cui nascono le battaglie per rivedere la definizione di un diritto: da qui parte Beppino Englaro (foto di Mauro Quercia), col ricordo commosso della figlia, della sua volontà (espressa prima della malattia) di non accettare una vita vegetativa artificiale e della difficoltà a vedersi riconosciuto un diritto teoricamente già previsto dalla legge italiana: quello di non essere sottoposti ad alcuna terapia contro il proprio parere o quello del proprio tutore.

Marco Cappato, fedele al doppio ruolo di politico e dirigente dell’Associazione Coscioni, ha tratto spunto da casi e dati per sistematizzare la proposta politica: «Non si tratta di scegliere fra eutanasia sì o no ma fra eutanasia legale o clandestina, per non menzionare il noto fenomeno dell’emigrazione di chi cerca il suicidio assistito o l’eutanasia in paesi (quasi tutta europa) dove questo sia consentito».  Cappato denuncia anche l’ipocrisia di un sistema sanitario nazionale che, pur opponendosi a queste pratiche non aiuta i malati che, invece, abbiano deciso di affrontare tutte le fasi della malattia fino al decorso naturale: i macchinari che consentono ai paraplegici di comunicare, per esempio, non vengono garantiti dal sistema sanitario nazionale, lasciando che oltre il 90 per cento di quanti potrebbero comunicare solo che avessero a disposizione un computer e le necessarie attrezzature sono privati di questa terapia e sepolti nel silenzio dal disinteresse della sanità pubblica.

Come Troilo anche Cappato sottolinea la necessità di fare chiarezza nel tema, evitando complicazioni terminologiche, giochi verbali ma anche pura e semplice assenza di dato (da qui la proposta di un’indagine parlamentare conoscitiva per sapere a che punto siano le pratiche di eutanasia clandestina in Italia). Un paradosso che Cappato segnala, e che aiuta a chiarire l’importanza di questo aspetto, è il caso Welby: «Il medico Riccio, che assistette al decesso di Piergiorgio Welby, non è mai stato processato, nonostante diverse denunce, perché ha potuto dimostrare che il decesso aveva fatto seguito alla fine della terapia e non ad un eccesso di sedazione, conta molto la differenza? È la domanda e la risposta è che la differenza vale 12 anni di carcere per il medico».

L’intervento di Defanti è più marcamente tecnico perché il professore, oltre ad avere seguito professionalmente Eluana Englaro, è stato anche nella consulta bioetica milanese, per conto della quale si occupava di fine vita ed accanimento terapeutico fin da molto prima della vicenda che vide involontaria protagonista la giovane friulana.

Il dato che emerge è «La necessità, anche per la pratica scientifica, di una legge sul testamento biologico perché, casi come quello di Eluana, sono a tutti gli effetti frutto di fallimenti della medicina che provoca condizioni patologiche croniche che non sarebbero state possibili nella medicina di pochi decenni fa». Insomma il tentativo, in buona fede, di salvare un paziente da un grave trauma crea condizioni croniche inguaribili ma potenzialmente permanenti e, secondo Defanti, la medicina se ne deve fare carico, evidentemente coinvolgendo il malato, se possibile, o i suoi tutori o parenti più stretti dove il malato non sia in grado di esprimere consenso. A ciò, evidentemente, si aggiungono le sempre più diffuse malattie croniche debilitanti, come l’Alzheimer, che sono a prognosi certa e sono rese sempre più diffuse proprio a causa dell’allungarsi della vita media per la sconfitta di molte gravi malattie.

Defanti inoltre sottolinea che tali diritti sono riconosciuti in quasi tutta Europa, a partire dalla Germania dove è stato il governo della CDU di Angela Merkel a varare la relativa legge. Defanti comunque sottolinea che il testmento biologico, che dovrebbe portare con se anche l’eutanasia passiva (cioè la sospensione delle cure), è obiettivo prioritario rispetto all’eutanasia attiva, alla quale si dichiara comunque favorevole ma più difficile da ottenere. Secondo Defanti inoltre l’eutanasia clandestina non è un fenomeno reale, si tratta piuttosto di interruzioni di terapia concordate e semiclandestine, mentre i casi di eutanasia attiva mascherati sono certamente rarissimi

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Pubblicato il 24 Aprile 2012
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