In piazza della Motta va in scena ul Santantòni
Come ogni anno alla Motta si festeggia il popolare santo con il falò e le bancarelle nelle strade
| C’è il giro preliminare, che si compie la sera del 15 o il mattino del 16, quando in circolazione ci sono soltanto i vigili impegnati ad assegnare i posti alle bancarelle. E’ un po’ come segnare il territorio, ritornare in un luogo della memoria e fiutarne di nuovo l’odore, distinguere rumori che solo allora si ascoltano. Voci di venditori, di imbonitori, musiche da fiera di paese aleggiano lungo via Carrobbio e si perdono come sonori fiocchi di neve nella vicina piazza Monte Grappa, che è già altrove, altro universo, con le vetrine e le chiacchiere dei portici.
Il giro preliminare alla Motta serve per riaffermare un possesso, oltre che a rivedere il Santo a lato dell’ingresso della chiesa: la barba bianca e fluente, il pastorale con la campanella e il maialetto ai piedi, il "porscell", perfetto alter ego del "Sant’Antoni" e suo animale totemico in tempi non sospetti, quando non c’era il vezzo di portare al guinzaglio un suino. "Santantòni dalla barba bianca, famm truvà quel ca ma manca", salmodiavano le nonne quando perdevano la "gugia" o il "dital" e quell’eremita, nato un dì del 251 nel villaggio di Komo in Egitto, vestito come un monaco, fiero e arcigno quanto basta a mantenere le distanze, entrava nel tinello di casa e di lì usciva dopo qualche ora, quando le nonne terminavano i racconti dei miracoli e delle intercessioni, delle Marie e delle Giovannine che al santo eran devote e lo pregavano per tutti noi. Alla Motta si saliva e si sale – anche in ossequio al termine, che sta a significare un rialzo del terreno – per mano a qualcuno, nonna nonno, papà, mamma o fidanzata. Si incede con calma, si osservano con finto stupore le vetrine a destra e a sinistra della via, si segue la scia olfattiva dei salamini alla griglia che i Monelli ammanniscono dal pomeriggio del 16 assieme a un vinello schietto, da subitaneo scintillio degli occhi e bacio un po’ allegro all’amica che si incontra fuori dalla chiesa. La Sagra si perde nei secoli, la catasta di legna, i mobili vecchi, le cianfrusaglie e gli abeti di Natale dismessi datano da quando alla Motta si svolgeva ancora il mercato grande del lunedì. Tempi in cui l’ambiente della "Fêra" era raccolto, paesano, familiare e piccolo borghese e la "gesa" era ancora fiera a chiudere la piazza, senza gli spifferi che vengon giù da San Pedrino dal giorno dell’apertura della stradetta al suo fianco destro. "Quanti besti in sul mercaa/per el dì de Sant’Antoni/di centenn gh’en sarà staa/conti minga di fandoni" verseggiava nel 1907 "El Carlin de Biumm de Sott", alias Cav. Uff. Luigi Santambrogio, milanese e garibaldino, pensionato a riposo delle ferrovie venuto a invecchiare in via Della Valle a Biumo. "Di banchett ona gran frotta/coi figh secch e i caramell/infesciaven tutt la Motta/coi pessitt e coi sardell", continua con facile vena descrittiva. I "banchett" ci sono ancora, ormai giganteschi autoarticolati che si aprono come il ventre di una balena a mostrare leccornie che arrivano dalla Sicilia, dal Piemonte, dall’Emilia, per non parlare dei venditori africani di tappeti, statue in legno e bracieri, di chi commercia incensi, mentre in piazza Ragazzi del ’99 trovi il pontremolese che ti butta lì l’introuvable su Varese, libro o cartolina che sia. Di "pessitt, gazosa e zuccor firaa" ne vedi sempre meno, così come di castagne secche infilate a collana, passatempo di cascina dei bisnonni davanti al camino. In compenso ci sono le frittelle, e nessuno può dire di aver fatto un Santantòni degno del nome senza averne gustate almeno un paio, una prima e una post falò. Lirico, il Mario Manuli, acquarellista della penna che girava da queste parti alla fine degli anni Trenta, annota nel suo "Strimpellate d’amore a Madonna Varese": "In questa festa popolaresca il canto in lode del Santo si associa a quello che si effonde tra i bicchieri, la fervida preghiera delle donne ha la stessa dolcezza delle parole che si scambiano gli innamorati e il suono delle campane sembra segnare il ritmo alle voci stentoree dei venditori. In questi contrasti c’è l’anima del buon popolo nostro, che trova le ragioni della sua esistenza nel lavoro e nella fede, tenendo gran conto il sacerdote e l’oste". Il Manuli, bontà sua, paragona la pira, "che scroscia stride e geme sempre più infuriata e sanguigna", a un’ampia tela di pittore fiammingo, adatta a rallegrare il cuore che ridiventa fanciullo. Al sommo della Motta, dove fino al Mille si riunivano a sentenziare i giudici del Seprio, arrivano cani al guinzaglio, gatti in gabbia, canarini e pappagalli, qualche mucca, forse maiali a prendere la benedizione di un Santo nato ricco e morto anacoreta in mezzo al deserto, nell’adorazione del creato e degli animali. "Bestemmia Iddio se non ti preme il Paradiso, ma lascia stare Sant’Antonio se tieni al tuo asino", recitava un adagio contadino e proprio i lavoratori delle campagne usavano condurre al cospetto del Santo le coppie di sposi novelli affinché Antonio garantisse loro buona ventura, molti figli e salute di ferro. Ed ecco che il repubblicano mangiapreti Speri Della Chiesa, una delle voci più acute e vive della Varese a cavallo dei due secoli, inventa le Giaculatorie a Sant’Antoni del Porscell e addirittura ne scrive una d’occasione, nel 1912. "Sant’Antoni gloriös/mettii a post on poo sti spos,/chè me par in veritaa/che sien tropp desbirolaa". Fin qui niente di malizioso, ma Speri, che per l’occasione si firmò Z.A. Beton (Zabeton è in bosino il chiacchierone un po’ pettegolo), spinge sul doppio senso lisciandosi il pizzetto: "Degh, per ogni saradura/la soa ciav propi in misura;/fee che riessa giusta in botta/col peston la soa pirotta./Se l’ideal del matrimoni/l’è on bell tocch de Marcantoni,/deghel senza economia,/dur, ch’el dura…e così sia". Oggi, orfani della barba bianca di una neve sempre più rarefatta e assuefatti alle serie di sindaci con tanto di maxi-cerino pronti a dar fuoco alle polveri, del Santantòni dei vecchi rimane qualche saluto in dialetto, la "struscia" avanti e indietro per la via Carrobbio, le luminarie sempre un po’ guercie e le castagne arrosto, un tempo cibo di poveri. Il falò brilla a dispetto dei pompieri e dei governi, vagamente sinistro e un po’ sornione, sempre pronto a far accendere negli occhi delle belle varesine un lampo aranciato di maliziosa complicità. Ma le promesse, si sa, come i sogni, molto spesso finiscono in cenere. |
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