«In troppi abbassano la guardia, la società è più vulnerabile»
Parlano gli operatori delle comunità alloggio: «Una volta eravamo un lazzaretto, oggi occorre un supporto psicologico e più risorse»
Don Michele Barban si ricorda qual era la situazione dieci anni fa. E non usa mezzi termini. «Venivano qui a morire – racconta – . Eravamo una comunità che assomigliava a un ospedale. Oggi è diverso. Oggi i farmaci prolungano la vita e aumentano le aspettative, ma anche i problemi che chi è malato di aids deve combattere».
Il Gulliver di Varese, da dove don Barban ci parla è una delle numerose comunità alloggio presenti in provincia di Varese. Qui vivono e si curano persone che hanno contratto l’hiv. Ce ne sono diverse, segnalateci dall’Asl di Varese. Ma tutte quelle contattate lamentano gli stessi problemi, segnalano le medesime tendenze. E non sono i numeri a spaventare, ma l’abbassamento della guardia, il calo della tensione. Una sorta di “malcostume” generalizzato, di «mancanza di comunicazione» per dirla sempre con don Barban, a partire dalle famiglie. «Sembra che negli ultimi tempi il problema dell’aids non riguardi più nessuno – spiega il sacerdote, responsabile della comunità che a Cantello conta una decina di posti – : né i giovani, che hanno perso l’uso di investire nei rapporti protetti, né all’interno della vita di coppia, dove rapporti extraconiugali non protetti o addirittura a pagamento rovinano famiglie intere».
Stessa impressione anche per Elisabetta Chinassi, educatrice del “Piccolo Gregge” di Castellanza. Qui, in una comunità retta dai padri Camilliani – che oltre ai tre voti ecclesiali ne aggiungono un quarto, quello di dedicare la vita ai malati – , Elisabetta parla di un «crescendo di attività a supporto psicologico rivolta alle persone che qui vengono ospitate». I motivi stanno proprio nelle maggiori aspettative di vita che i farmaci di oggi offrono. Dieci anni fa chi contraeva l’aids non aveva aspettative di reintrodursi nella società. Oggi questo accade e l’assistenza cambia e va verso questa direzione».
Ma il problema sta nella prevenzione. «Si sta facendo poco, troppo poco» – spiega Giulia Colombo, infermiera professionale dell’Aisel di Marchirolo, poco lontano da Lavena Ponte Tresa, dove il disagio collegato alle tossicodipendenze, secondo uno studio realizzato dalla Comunità Montana, è preoccupante. Un esempio? «Qualche giorno fa ho visto un film in cassetta registrato nel 1992. Tra le pubblicità si vedevano diversi messaggi che sensibilizzavano l’uso del profilattico tra i più giovani, dove si spiegavano i rischi di rapporti occasionali non protetti. Oggi non si vede nulla di tutto ciò: siamo tutti più tranquilli, ma proprio per questo più vulnerabili».
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