Islam e povertà, benvenuti nel Mali

Seconda puntata del diario del consigliere regionale Mario Agostinelli tra i partecipanti al forum mondiale

All’alba, prima del mercato che raccoglie i contadini di tutta la regione, la città della moschea di fango più grande del mondo si accende di riflessi di piccole sagome. Sono i «talibè», allievi delle scuole coraniche. Djennè ne conta quasi cento, in gran parte riservate a chi viene da villaggi sperduti seguendo il marabutto, il maestro. Secolare crocevia di spiritualità islamica africana assieme a Timbuctu, porti sud e nord lungo il Niger dei flussi di ricchezza – oro e sale in particolare – verso l’Arabia e l’Europa, ricca di storia e di cultura, la città famosa per le guglie di terra del suo monumento sacro color ocra vive il conflitto tra l’Islam laico e tollerante, intrecciato alla tradizione animista di tutto il Mali e l’aggressività delle sette wahhabbite finanziate dai petrodollari arabi e in cui si predica la jihad. (sopra: Mario Agostinelli)

I piccoli talebani gironzolano chiedendo cibo per sè e per il marabutto con in una mano una scatola di latta per le offerte e nell’altra le tavolette di legno con i versetti in arabo del corano.
Il marabutto ci dice che vorrebbe andare in pellegrinaggio alla Mecca, ma che la sua indigenza non glielo permette.

Islam e povertà vanno di pari passo in Mali : l’85% degli undici milioni di abitanti sono mussulmani e il 69% vive sotto la soglia di miseria. Dal Mali si fugge verso l’Europa cercando un varco nel deserto lungo le rotte secolari dei Tuareg e arrivando nella recinzione delle enclave spagnole di Ceuta e Melilla, in Marocco, da dove nei mesi scorsi sono stati riportati nella capitale Bamako 600 disperati. Islam e miseria altrove sono, miscela esplosiva che il radicalismo mussulmano puo’ far detonare. Qui non ancora e forse mai. La religione del Corano è in prevalenza molto aperta e tollerante, erede del misticismo Sufi. Qualcosa come la tradizione araba della grande espansione in Europa e dei governi illuminati di Istanbul-Costantinopoli, gli anni in cui il pellegrinaggio alla Mecca della corte fastosa del principe di Tumbuctu attraverso i paesi conosciuti del Nordafrica aveva creato in tutta Europa la leggenda della città dalle fondamenta d’oro.

In effetti sta crescendo la presenza dei wahhabbiti, tendenza rigorista legata anche economicamente all’Arabia Saudita . Ce ne si accorge dalle scritte arabe sulle moschee (anche se qui praticamente nessuno conosce l’arabo) e dalla quantità di restauri dei meravigliosi edifici di fango sostenuti da organizzazioni saudite o mauritane. Ci si dice che sono 21 solo al nord le nuove moschee costruite coi petrodollari degli wahhabbiti.

Ma la partita aperta con il carattere laico dello stato maliano e con la sua tradizione di apertura e tolleranza è, fortunatamente, quasi disperata. In Mali c’è libertà di stampa, una sola emittente pubblica, ma 42 giornali e 125 radio private. La grande musica che si irradia in tutta Europa e negli Stati Uniti raccoglie le tradizioni popolari, i canti dei griot, e li rigenera con i ritmi blues e rock non solo sotto le tende dei bozo e dei tuareg, ma anche negli stadi dove si svolgono grandi concerti con partecipazione sconvolgente. I religiosi di tutto il mondo qui sono liberi di operare e nei villaggi Dogon i quartieri cristiano mussulmano ebraico e animista convivono come succedeva a Sarajevo. Quando il muezzin chiama alla preghiera solo i pochi wahhabbiti si radunano a parte. E poi c’è la questione delle donne che hanno in Mali una diffusissima organizzazione associativa: mantengono i coloratissimi vestiti locali, lavorano moltissimo, socializzano e non si fanno relegare in casa.

La società democratica del Mali è una realtà sorprendente, viva, diffusa anche nei villaggi più sperduti, che hanno una tradizione storica di partecipazione codificata, estremamente sofisticata. Il Mali poi ha bandito la guerra e ha messo sotto un’unica giurisdizione aperta ben 11 etnie.

Capiamo così la ragione profonda della convocazione del Forum Sociale Mondiale policentrico a Bamako: si tratta dell’indicazione di una via per tutta l’Africa e di un punto di riferimento per la ricostruzione, questa volta dal basso e a cominciare dai popoli, dello «spirito di Bandung» richiamato nella giornata di inaugurazione del Forum, quando nel lontano 1955 i paesi africani e i loro leader democratici davano vita all’utopia dei paesi non allineati, stritolati prima dalla guerra fredda e massacrati poi dalla globalizzazione liberista tuttora in corso.

Sembra che la convocazione del Forum abbia creato molte attese non solo nel ceto medio che legge i giornali, ma anche nei quartieri popolari dove si ascoltano radio pettegole e pirotecniche e si guarda una televisione molto burocratica, ma che tuttavia rilanciano continuamente interviste di locali e di «altermondialisti» bianchi seguiti con estrema simpatia e curiosità. Ce ne si accorge alla enorme coda per ritirare i pass di entrata, dove ci si pigia tutta la mattina per ore con donne e uomini curiosissimi e vestiti a festa per poi sentirsi dire, in perfetto stile africano, che i pass non sono arrivati e che saranno distribuiti al pomeriggio.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 20 Gennaio 2006
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