«Quando la carità è istinto di possesso»

Risate amare per la commedia "Io, l'erede" di Eduardo De Filippo, riletta da Andrée Ruth Shammah; in replica mercoledì e giovedì sera

«In Paradiso ci va il benefattore, non il beneficato. L’avvocato Selciano vuole mettere la testa sul cuscino e dormire tranquillo la notte…» E’ una tesi scomoda e amara quella che Eduardo De Filippo esprime per bocca di Ludovico Ribera, l’erede, il figlio di un uomo che per trentasette anni ha vissuto alle spalle della famiglia Selciano. Da profondo osservatore della natura umana, De Filippo scrivendo Io, l’erede nel 1942 volle smascherare uno dei tabù della società borghese, quella "carità pelosa" che più avanti nel testo farà attaccare dal suo personaggio come un «barbaro istinto di possesso dell’uomo».

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“Io, l’erede” di Eduardo De Filippo 4 di 10

Ludovico Ribera, dopo la morte del padre, si presenta in casa dei benefattori che se lo sono presi in carico per trentasette anni. Ma non vuole ringraziarli: vuole scavare sotto la loro rispettabilità borghese, mostrare come dietro la generosità dell’avvocato Selciano e della sua famiglia ci siano solo egoismo e arroganza, e per farlo sceglie una strategia paradossale. Si dichiara erede naturale del "patrimonio di sentimenti" del padre, e si dice legittimato a sostituire il suo posto in famiglia. Così attacca un altro luogo comune: la riconoscenza di chi riceve un atto di carità… «Il beneficato odia il benefattore proprio per la riconoscenza che gli deve», che gli viene fatta pesare, umiliandolo. Polemicamente Ribera vuole farsi risarcire per tutto ciò che il padre non ha potuto costruire per l’avvenire del figlio, comodo parassita di benefattori compiacenti, caso esemplare perché «l’uomo è più felice quando non ha responsabilità». In realtà non farà nulla per cambiare se stesso, ma riuscirà a dare a Bice, la ragazzina povera allevata in casa, il coraggio di andarsene per la propria strada, sciogliersi dal vincolo vischioso di una riconoscenza che è sottomissione: è l’unica speranza che lascia l’opera, «che strade inventano gli uomini…infatti spesso portano il nome che loro inventano».

La versione riletta da Andrée Ruth Shammah comunica alla perfezione le questioni lanciate dal commediografo napoletano. Trattandosi di un’opera "in lingua italiana", come con distacco De Filippo definiva l’italiano, appare più fredda, con una comicità meno immediata e colorita dell’originale, pur stemperandosi nell’accento degli attori (ben quattro sono comunque napoletani). Al centro della vicenda c’è lui, uno splendido Geppy Gleijeses ironico e amaro, nel ruolo di Ludovico Ribera; accanto, un convincente Umberto Bellissimo (Amedeo Selciano) e l’esilarante Leopoldo Mastelloni, nei panni dell’ingombrante zia Dorotea. (Mastelloni, noto attore e cantante partenopeo di origini nobili, ha portato in scena un altro testo di De Filippo, Sabato, domenica e lunedì).

Stasera e giovedì si replica: l’appuntamento è sempre alle 21 al Teatro di Varese di piazza Repubblica.

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Pubblicato il 31 Gennaio 2007
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