L’amichevole
L'ottava puntata del diario di Michele Cimmino, in Bosnia Erzegovina con il Servizio Volontario Europeo
L’ultimo fine settimana a Mostar è stato animato. Sono arrivati i volontari che lavorano con me nel nord della Bosnia e abbiamo avuto una guida tutta nostra, per gli interi due giorni. Oltre a farci da cicerone, Živko ci ha anche ospitato a casa sua. A posteriori, mi domando come abbia fatto a sopportare cinque occidentali farfalloni, smaniosi di mettere una spunta al ponte cittadino nella loro lunga lista dei monumenti visitati. Includo anche il sottoscritto nel gruppo dei farfalloni perché, dopo tanto equilibrio politicamente corretto, ho deciso di spegnere il cervello per quarantotto ore, trasformandomi in turista con macchina fotografica allegata.
Delle molte persone che passano per il Centro di Volontariato dove lavoro, Živko è stata una di quelle che più mi ha incuriosito, sin dall’inizio. Ricordo la prima volta che lo incontrai; quando seppe che ero italiano, e torinese, proruppe in alcune espressioni piemontesi da fascia protetta, concludendo poi con il classico “du purun bagnat l öli”. Di stucco davanti a questo ragazzotto croato di un metro e novanta e ai suoi rudimenti di piemontese, non ebbi nemmeno il tempo di chiedergli come facesse a conoscere quelle espressioni, che iniziò a parlarmi della sua vita e, immancabilmente, della guerra. Di madre croata di Sarajevo, e con un padre fuggito in Germania con un’altra donna, Živko nasce e cresce nella stessa Sarajevo, fino allo scoppio della guerra. Quando la situazione peggiora, scappa con la madre a Mostar, prima di trovare riparo in un campo d’accoglienza a Grude. Grazie all’attività di un’associazione italiana di volontariato, viene in Italia due volte durante i frangenti più tragici della follia bosniaca. Ospite di una famiglia di un paesino alle porte di Torino, rimane in Italia per un periodo complessivo di quasi sei mesi. Tempo sufficiente per imparare i primi rudimenti di piemontese e acquistare confidenza con l’italiano. Forse è per l’innocenza con cui parla, forse per il trasporto con cui descrive l’Italia e Torino, luoghi, a suo dire, esotici e pacifici a cui gli è stato consentito di accedere, ma Živko mi risulta simpatico. “A Torino ci sono tante cose da fare. C’è lavoro e si vive bene, non come qui”. Per sommi capi, sono questi i suoi commenti. Parole che mi fanno riflettere su come si possano avere prospettive differenti.
Il calcio è spesso un argomento d’incontro, specialmente fra uomini, e Živko non fa eccezione. Rapidamente emerge la sua passione per il calcio. Il suo soggiorno a Torino lo ha trasformato in un appassionato tifoso granata, con tanto di astio, per quelli che lui stesso definisce i “gobbi”. Come tutte le persone alle prese con una lingua straniera, Živko non sa ancora in che contesto si usano determinate espressioni. Ascoltando i suoi commenti sul calcio, me lo immagino in qualche Bar Sport, circondato da un popolo di tifosi infervorati, che si esprimono in un italiano ben distante dall’Accademia della Crusca. Non so se sono stati i sei mesi italiani a dare a Živko questo gesticolare senza freni, ma le sue braccia si muovono senza sosta nell’aria, arrivando a grossi cerchi concentrici quando racconta del suo sogno di un’amichevole fra Torino Calcio e Zrinjski Mostar, la squadra croata della città.
Il fine settimana a Mostar è stato ugualmente ricco di commenti e scambi di pareri tecnici sul calcio italiano, con Živko impegnato a presentarmi l’intera biografia dei giocatori croati che hanno militato nel campionato italiano. Nel pomeriggio di sabato, dopo l’arrivo degli ultimi volontari ritardatari, l’allegra comitiva ha lasciato la casa di Živko per dirigersi verso lo Stari Most. La nostra guida vive al sesto piano di uno dei tanti scatoloni di cemento che compongono quel grande alveare che è il centro cittadino della zona croata. Per raggiungere il ponte dalla zona croata, bisogna attraversare il lungo viale cittadino, considerato il confine invisibile fra i due mondi. Io e Živko, a capo della nostra allegra combriccola, iniziamo a camminare ancora immersi nei nostri discorsi calcistici. Durante il cammino, l’umore di Živko comincia a cambiare. Avvicinandosi alla zona del ponte, il nostro cicerone mostra chiari segni di disagio. Ai suoi commenti sul calcio catenacciaro, iniziano ad alternarsi frasi di scherno e critiche sulla condizione in cui versa questa altra parte della città. Come già successo in altre situazioni, Živko dimostra una certa incapacità nella scelta del registro linguistico da utilizzare in italiano, perlomeno questa è la consolazione che do a me stesso quando sento le sue parole. “Guarda tutto è sporco qui”, mi dice abbandonando il precedente interesse per la difesa a uomo. “Ma non sanno usare i cestini questi”, continua mentre ci avviciniamo al ponte. Evito di fargli notare che anche il suo lato della città non brilla per ordine e pulizia. Le sue parole si riempiono via via di impropri rivolti al degrado della città, attribuibile, a suo parere, alla negligenza degli abitanti. Asserisco con un quasi impercettibile movimento della testa, alle considerazioni sulla sporcizia che monta nelle vie della città, e al degrado di molti edifici. Rimango dell’opinione che non ci sia grande differenza fra le due parti della città. Caotiche, sporche e vissute in egual maniera. Živko lentamente fa emergere il suo lato intransigente, chiuso e forse un po’ provinciale.
Il sopraggiungere di Maja, attardatasi di qualche metro con gli altri volontari, mi toglie da una situazione che poteva divenire imbarazzante. Dall’italiano, torniamo all’inglese e ascoltiamo le lamentele dell’affamata Maja che non ha ancora pranzato. Decidiamo di fermarci per uno spuntino veloce non appena raggiunto il ponte. Ci sono molti bar e ristoranti nella zona, ne troveremo uno per il nostro chiassoso gruppo. Entrati nell’area pedonale, dove l’asfalto lascia strada ad un pavimento di pietroni affogati nel cemento, e i condomini socialisti sono sostituiti da tipiche abitazioni a un piano, in legno e pietra, Maja si ricorda di un locale dove era stata alcune settimane prima. È uno dei tanti ristoranti con vista sulla Neretva e sul ponte vecchio. Data l’ora, ci sono pochi turisti e riusciamo a sederci in uno dei punti più belli del terrazzo: a picco sul fiume. Živko si siede accanato a me e ricomincia a parlarmi in italiano. Poiché nessun altro nel gruppo parla italiano, la lingua diventa per lui una sorta di strumento di esclusione, e inizio a capire che lo fa quando vuole parlarmi di qualcosa senza coinvolgere gli altri. Immancabilemnte ricominciano le sue esternazioni sui musulmani. “Chissà che schifo ci daranno da mangiare” è la sua frase di esordio. Inizio a essere stanco di questi commenti, ma faccio buon viso a cattivo gioco. Non rispondo, nell’attesa che le sue esternazioni terminino quanto prima. Il picco lo raggiunge quando uno dei volontari versa il caffè sulla tovaglia. Con ghigno beffardo, mi guarda ed esclama: “Dopo chissà quanti mesi, ora dovranno cambiare la tovaglia; o magari la girano solo al contrario, sperando che la macchia di caffè versato non dia troppo negli occhi”.
Non so se essere infastidito o dispiaciuto per l’acidità dei suoi commenti. Živko rappresenta le nuove generazioni, coloro che dovrebbero cominciare a voltare pagine, e guardare a un futuro di integrazione e convivenza pacifica. Tuttavia, la situazione è ben lontana dalla ritrovata stabilità. L’odio, o anche solo la diffidenza, emergono alla prima occasione. Fra una tazza di caffè versata e un ennesimo commento di Živko, il nostro spuntino termina velocemente. Pronti a fare i turisti in questo sabato assolato, mi alzo dal tavolo con la convinzione che, un’amichevole con il Torino Calcio, rimanga un evento più sicuro del derby di campionato fra Zrinjski e Velez.La community di VareseNews
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