Quell’imperfezione che rende unica la Mannoia
Un teatro Apollonio tutto esaurito e in delirio per la cantante. Due ore di spettacolo e un finale in mezzo alla gente e al "Cielo d'Irlanda"
Fiorella Mannoia è una bella signora. Di una bellezza ruvida, come i suoi capelli color ruggine viva. Ha una voce potente e fosca come il desiderio di peccare. Più vicina all’errore che alla perfezione. Sally (quella di Vasco Rossi) se potesse parlare di lei, direbbe che la voce della Mannoia fa capire alle persone che forse «la vita non è tutta persa». Quella voce è capace di dare una chance a tutti perché si puo’ essere unici e imperfetti allo stesso tempo. Forse questo è il motivo per cui la gente si sente così vicina a questa artista che molti si ostinano ancora a chiamare interprete. Non si puo’ spiegare altrimenti il delirio collettivo del Teatro Apollonio di Varese: mille persone che hanno cantato, ballato, agognato un suo sguardo, una carezza. Persino le maschere del teatro e i tecnici del suono, che quelle canzoni hanno ascoltato e mixato infinite volte, in infiniti luoghi diversi, hanno battuto il tempo, ondeggiato la testa, sussurrato le parole.
Fiorella Mannoia canta, ma non è questione di tecnica. Quella la possono imparare tutti. C’è qualcosa di più profondo che ha a che fare con i significati, perché lei «sceglie le canzoni quando hanno parole che le danno emozione». La sua voce le filtra, le scompone e te le ritorna vestite di un senso nuovo, non sempre conforme all’originale. Anzi, quasi mai. Non è necessario che ne sia consapevole. È un dono. Magari poi nella vita, giù dal palco, è antipatica e un po’ romana de Roma (l’antipatia è un’ipotesi). Ma il suo rimane un dono vero.
Il concerto di Varese è stato un bagno di energia. La Mannoia nel bis si è arrampicata in cima al teatro sulle note del “Cielo d’Irlanda” (Bubola), inseguita dalle persone e dagli addetti alla sicurezza. Il palco con una scenografia degna di un atelier alla moda e lei con un vestito essenziale come la sera (nella prima parte del concerto) hanno accompagnato oltre due ore di canzoni. Un omaggio in apertura a Cesare Cremonini (“Le tue parole fanno male”) e poi a seguire Renato Zero (“Cercami”), i Negrita (“Ho imparato a sognare”) e Ivano Fossati (“Oh che sarà”, “C’è tempo”). Chissà perché quelli bravi hanno sempre delle band strepitose? Un violoncello dolce e cupo rende ancora più dubbiosi “I dubbi dell’amore” di Ruggeri, mentre un arrangiamento brasiliano trasforma “Una giornata uggiosa” (Battisti/Mogol) in una giornata quasi allegra. E ancora, “Clandestino” di Manu Chao, “Sorvolando Eilat” (Mannoia) e l’omaggio a Bertoli (“Pescatore”) che le diede la notorietà. L’ermetismo di “Sempre per sempre” del generale De Gregori con lei è diventato ancor più indecifrabile. Tutto il teatro, e non solo le femmine, ha cantato “Quello che le donne non dicono”(Ruggeri/Schiavone).
La Mannoia ha citato una canzone (“La paura non esiste”) di Tiziano Ferro e Laura Pausini. Il testo l’ha convinta perché dice che «l’errore non esiste». L’unica spiegazione, secondo l’artista, del fatto che non ubbidiamo mai ai consigli che ci arrivano da dentro che ci dicono di non fare una determinata cosa oppure, al contrario, di farla. E così l’uomo, nella sua capacità di sbagliare, diventa immortale, generando all’infinito, appunto, errore e quindi imperfezione.
Proprio come la sua voce.
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