Il bel pallone rosso di Mara Cagol
Lo spettacolo di Angela Demattè sulla fondatrice delle Brigate rosse suscita interesse e polemiche. Attraverso il dialogo tra la brigatista e suo padre, mette in scena dieci anni di storia italiana tra il 1965 e il 1975.
Con "Avevo un bel pallone rosso" vanno in scena dieci anni di storia italiana tra il 1965 e il 1975, quando la brigatista venne uccisa. Un dialogo a due tra Margherita "Mara" Cagol e suo padre. Lo spettacolo teatrale scritto e interpretato da Angela Demattè è "un pretesto per raccontare un rapporto mancato tra un padre e una figlia che va sempre più a sgretolarsi". Non c’è giudizio, ma solo il bisogno di cercare di capire il mistero che portò Mara a diventare una terrorista.
L’autrice trentina esplora le ragioni delle scelte profonde della sua conterranea, che fu la fondatrice delle Brigate rosse insieme con il marito Renato Curcio e Alberto Franceschini.
Come è nato lo spettacolo?
«Ci sono diverse ragioni. La prima nasce dalla voglia di esplorare un periodo storico che la mia generazione conosce poco. Il ’68 non si studia, noi non eravamo ancora nate, e sappiamo pochissimo di allora. È un passaggio importante che ha formato i nostri genitori, e di conseguenza anche la nostra educazione. La seconda ragione nasce dal fatto che io sono trentina e conosco l’humus di quel mondo. Margherita Cagol viene dalla mia stessa terra ed è cocciuta e caparbia. Quando sceglie una strada, nel bene e nel male, sente il bisogno di andare fino in fondo. Un’altra ragione è il desiderio di esplorare il rapporto tra un padre e una figlia che allora era profondamente diverso da quanto viviamo oggi. Mio padre viveva in Valsugana e faceva il fabbro. Non ha fatto il ’68 ed era contrario a quanto succedeva. Da una parte era retrogrado, dall’altra però era forte e determinato. In entrambi i protagonisti della scena c’è una parte di me».
Come ha conosciuto Mara Cagol?
«Sono partita da due libri scritti da Piero Agostini e Stefania Podda. Ho anche letto molto sul marxismo e sulla storia delle Brigate rosse. Molto utile "Mara Renato e io" di Franceschini scritto con Buffa e Giustolisi e poi l’intervista di Renato Curcio. In ogni caso il testo teatrale passa tutto in filigrana per entrare nel rapporto tra Mara e suo padre tra il 1965 e il 1975. Un grande affetto timido che non riesce a comunicare, ed è l’aspetto più commovente. Ho scelto di utilizzare il dialetto trentino perché la lingua non tradisce le emozioni. Quando il padre cerca di riavvicinarsi a Mara, ormai è troppo tardi. Lei ha scelto ed è da un’altra parte e si esprime in un italiano infarcito da terminologia ideologica. La scelta del dialogo con il padre non è casuale perché allora era una figura che si voleva uccidere. Ora invece noi ne siamo alla ricerca, bisognosi di stringere un rapporto».
Mara Cagol è stata mitizzata molto, che idea si è fatta di lei?
«Sono cambiata molto perché durante tutto questo periodo ho conosciuto tante persone che avevano relazioni con lei, tra cui sua sorella. Poi mettendola in scena mi sono spesso immedesimata. Mara era una ragazza di grande sensibilità con il desiderio di trovare uno scopo totale che desse senso a tutta la sua vita. Quello che rimane un mistero è che non si risolve la domanda del perché abbia scelto di prendere le armi. Resta il fatto che lei ha unito la sua grande passione per Renato Curcio, che diventerà suo marito, a quella politica. Un’unione dirompente e terribile al tempo stesso e, anche se loro non hanno mai ucciso nessuno, hanno grosse responsabilità rispetto al terrorismo di quegli anni. Non si può comunque condannare il loro desiderio di voler cambiare e creare un mondo migliore».
Però ci sono posizioni che non ammettono ripensamenti e che condannano senza alcun indugio la stagione del terrorismo. Anche il suo spettacolo non è stato esente da critiche. Come mai?
«Non c’è una risposta che risolva questa questione. Non ci sono buoni e cattivi. L’ideologia ha fatto sì che tutto finisse in peggio e loro ne sono rimasti schiavi perdendo contatto con la realtà. Gli ha chiuso lo sguardo e non gli ha più permesso di tornare indietro. Per loro ormai era un vortice . Sui giornali non si vuole ammettere che l’uomo è universale e non è solo cattivo. Nello spettacolo, come ho già scritto, il dialogo tra padre e figlia segue la trasformazione del personaggio di Margherita: la metamorfosi agghiacciante di questa ragazza “per bene” che sfocia in un fanatismo che sarà, per lei, distruttivo».
Come è andato finora lo spettacolo?
«Abbiamo fatto un’anteprima a Roma nella primavera scorsa e già lì ci siamo resi conto del forte interesse. Questa storia ha coinvolto molte persone. Lo spettacolo vero e proprio poi è stato prodotto dal teatro Stabile di Bolzano e l’11 novembre è andato in scena in quella città per tre settimane. Poi lo abbiamo portato nella provincia trentina. Abbiamo dovuto aggiungere repliche perché era sempre tutto esaurito. La regia di Rifici e l’interpretazione di Andrea Castelli, nel ruolo del padre, hanno reso lo spettacolo molto forte e il pubblico, malgrado la durata di un’ora e quaranta, resta incollato alla sedia con una forte attenzione ed emozione».
Dove andrà in scena lo spettacolo nelle prossime settimane?
«Dall’11 al 16 gennaio siamo al Piccolo Eliseo a Roma e poi dal 18 al 30 al Litta a Milano. Dopo torneremo in Alto Adige».
Che formazione ha lei?
«Sono cattolica di educazione e poi per scelta. Sono praticante e ho trovato dei maestri davvero positivi sia nella vita che nel lavoro. È facile cadere nella tentazione di chiudersi nell’ideologia, ma questo sarebbe terribile. La grandezza del teatro è il fatto che puoi immedesimarti negli opposti. Tante polemiche su Mara Cagol nascono dal fatto che ci fa ancora tremare la sua scelta. Lei che era carina, sensibile, cattolica e dolce. Resta un mistero che dobbiamo rispettare».
Lei ha ricevuto il premio Riccione proprio per questo lavoro. Cos’è per lei il teatro?
«Il teatro non deve fare politica e schierarsi. Uno spettacolo non è un saggio sociologico, ha il potere di fare domande e aprire interrogativi. Se non fa questo diventa noioso e demagogico».
Angela Demattè ha trent’anni e vive tra Milano e il Trentino. Ha sposato Andrea Chiodi ed è sempre più legata a Varese dove ha già messo in scena diversi lavori, tra cui la storia di Domenichino Zamberletti e il monologo "Etty Hillesum, cercando un tetto a Dio".
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