La morte di Mara

Un breve estratto dal libro di Alberto Franceschini, Pier Vittorio Buffa, Franco Giustolisi, edizione Mondadori

mara renato e io - franceschiniLe pagine sulla morte di Mara Cagol
“Mara Renato e Io – Storia dei fondatori delle BR” di Alberto Franceschini, Pier Vittorio Buffa, Franco Giustolisi (ed. Mondadori)

Cap. In prigione, da pg. 135 a pg. 137

Erano le 9.30, mi stavo facendo la barba ascoltando il giornale radio. La notizia di apertura è secca e drammatica: sparatoria tra carabinieri e banditi in una cascina nei pressi di Acqui Terme, morti un carabiniere e una donna, liberato incolume l’industriale Vallarino Gancia, sequestrato ieri pomeriggio a Canelli, vicino Asti. Penso subito ai compagni: quello di Gancia doveva essere l’«esproprio strategico» di cui mi avevano fatto sapere, sono stati scoperti e hanno dovuto sparare. Non possono che essere loro, alla cascina Spiotta.
«Morti un carabiniere e una donna…» Una donna, Mara, spero non sia lei, ma non è giusto, anche se non è lei è sempre una compagna morta. Non controllo i miei pensieri, continuo a sperare che non sia Mara e me ne resto tutto il giorno da solo, senza parlare con nessuno. Martino e Franco intuiscono qualcosa, non mi vengono vicino. La sera vado in sala tv per il telegiornale. Fanno vedere un prato, un corpo coperto da un lenzuolo: è Mara, riconosco i suoi blue-jeans arrotolati al polpaccio, le scarpe di corda. Non posso più vedere il televisore, devo andare, uscire. Incrocio Martino e Franco che mi guardano preoccupati, devo dirgli qualcosa, parlargli, e trovo l’ultima goccia di autocontrollo per dirgli: «Compagni, è un gran casino, ci è andato a monte tutto».
Non gli dico di Mara, di quelle scarpe di corda comprate insieme all’Upim.
In cella mi getto sul letto, chiudo la tenda del baldacchino e piango. Ho tentato di resistere alle lacrime, ma mi salgono agli occhi da sole, più forti della mia volontà di respingerle. E piango per ore, lentamente sento come se un blocco di ghiaccio si sciogliesse dentro di me.

La cascina Spiotta l’aveva comprata lei, tre anni prima, per poche lire, sei milioni e mezzo. Avevamo lavorato mesi per portarvi l’acqua, costruire il bagno e la doccia . Vi andavamo ogni fine settimana possibile per stare davanti al grande camino e lavorare i campi. Vi era una grande quantità di alberi da frutta: ciliegie, pesche, albicocche, nocciole. E anche uva dalla quale ricavavamo un vinello leggero, frizzante. Non facevamo tutto da soli: il nostro confinante, avevamo imparato che in campagna non bisogna fuggire i vicini, ci curava la vigna e il prato per il grano. Gli avevamo detto di essere un gruppo di insegnanti ai quali piaceva la natura, la terra ed eravamo diventati amici. Aveva una figlia della nostra età: qualche volta l’avevamo portata con noi a ballare, ad Acqui, e ci raccontava la sua voglia di città, grandi negozi, uffici.
Non ci aveva denunciato nessuno quando molti di noi che frequentavano la cascina, io, Renato, Maurizio, Alfredo, eravamo stati arrestati, con grandi foto sui giornali. I compagni vi erano tornati e ne avevano fatto la prigione di Gancia.

Anche Mara vi era tornata, la morte che tante volte l’aveva sfiorata, l’aveva inghiottita proprio alla Spiotta. Il giorno dopo che io e il Nero, durante il sequestro Sossi, stavamo per ammazzarla, le avevo detto scherzando: «Mi sa che è arrivato il tempo in cui qualcuno di noi ci lascia la pelle». È toccato a lei, per prima.
Quella parole mi tornano addosso come un colpo di fucile. Avrei preferito essere io al suo posto, cadere per lasciarle la vita, cancellare su me stesso quella inutile profezia.

Mi addormentai per ore, creandomi a poco a poco un’immagine: è morta col sole, sorridendo, senza soffrire, nel campo vicino al suo boschetto di nocciole.

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Pubblicato il 29 Dicembre 2010
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