“Quel coltello è di Piccolomo: è lui l’assassino”

Le motivazioni della sentenza di ergastolo all'assassino di Carla Molinari confermano la validità delle prove raccolte al processo delle mani mozzate

La corte d’assise di Varese ha depositato le motivazioni della sentenza (90 pagine) che a condannato all’ergastolo Giuseppe Piccolomo, riconosciuto come l’autore dell’omicidio della ex tipografa Carla Molinari, a Cocquio Trevisago, il 5 novembre del 2009. I giudici Ottavio D’Agostino e Anna Giorgetti hanno ribadito la validità delle prove contro l’imputato e in particolare le tracce di sangue nel coltello trovato dagli inquirenti a casa del Piccolomo: «Il coltello è certamente di proprietà del Piccolomo Giuseppe – scrivono i giudici – che non ne ha mai asserito lo smarrimento né ha provato di esserne entrato in possesso, per averlo acquistato o ricevuto in permuta o a qualsiasi altro titolo, in epoca successiva alla data dell’omicidio.

Non esiste alcuna evidenza o principio di evidenza – continuano i giudici – che spieghi in modo logico, prima ancora che giuridicamente fondato, come sia possibile che il sangue di Carla Molinari si trovi sul coltello di sicura proprietà e permeante accesso di Piccolomo Giuseppe senza affermare che proprio Piccolomo è l’autore dell’efferato omicidio».

Ma anche le altre prove emerse in dibattimento sono valide e a questo proposito i giudici affermano che la testimonianza della signora Gabriella Volante – la donna che vide Pippo mettere i mozziconi poi trovati nella casa del delitto, in un barattolo, la mattina del 5 novembre – è particolarmente attendibile e precisa. L’unico punto su cui i giudici non concordano con il pubblico ministero Luca Petrucci è il movente economico. Nel senso che non è stato sufficientemente provato. E’ vero cioè che Piccolomo aveva un disperato bisogno di soldi ma, secondo le motivazioni, «la prova del movente non è soddisfacente». Non è infatti del tutto acclarato che l’uomo volesse ucciderla “solo” per accaparrarsi i risparmi che aveva nascosto in casa. Si tratta dunque di un «movente tratteggiato nelle linee essenziali, ma insufficientemente provato».
Questo però, rimanendo strettamente ancorati al nostro codice di procura penale, non esclude per nulla la premeditazione, che invece per i giudici è ampiamente provata, a partire dal depistaggio organizzato la mattina precedente all’omicidio con la raccolta dei mozziconi al bar di Cocquio Trevisago. Un’aggravante importante che ha pesato nel calcolo finale della pena.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 16 Settembre 2011
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