I giudici: “Paggiaro dice la verità sulle tangenti a Caianiello e Miano”
Nelle motivazioni del processo che ha condannato l'ex-capo del Pdl provinciale e l'architetto gallaratese per estorsione si racconta uno spaccato significativo dell'ambiente politico e imprenditoriale della città dei due galli
«Paggiaro ha versato somme di denaro a uomini politici per conseguire il rilascio di atti amministrativi», per i giudici del Tribunale di Busto Arsizio che hanno condannato per estorsione Nino Caianiello e Piermichele Miano questa è una costante nei procedimenti penali che lo hanno riguardato e «non si vede il motivo per cui solo in questa specifica situazione (250 mila euro consegnati in due tranche, ndr) questi dovesse muovere false accuse a Miano e a Caianiello». E’ questa una delle motivazioni contenute nelle 93 pagine depositate dal collegio giudicante formato dal presidente della sezione penale Adet Toni Novik e dai giudici a latere Alessandra Simion e Piera Bossi per il processo nato dalle dichiarazioni del costruttore Leonida Paggiaro alla Procura di Verbania nel 2005 e conclusosi lo scorso 28 febbraio con la condanna, in primo grado, a 5 anni di carcere dell’ex-plenipotenziario del Pdl in provincia di Varese Gioacchino Caianiello e dell’architetto Piermichele Miano.
Secondo i giudici, dunque, il costruttore Leonida Paggiaro ha detto il vero e anche se non è stato mosso, nella sua denuncia, da sentimenti di giustizia: «Ma – si legge nelle motivazioni – il punto non è l’eticità dei suoi comportamenti, criticabili quanto si vuole, ma se questi ha detto il vero o il falso. Tutti gli elementi di prova logici e fattuali (…) indicano che Paggiaro, come ha sempre fatto quando ha denunciato di aver corrisposto somme di denaro per ottenere provvedimenti amministrativi, ha detto il vero».
LO SPACCATO POLITICO – I giudici, inoltre,raccontano con estrema chiarezza uno spaccato della Gallarate governata dal Pdlattraverso le dichiarazioni dello stesso accusatore: «Nel tentativo di risolvere un contenzioso relativo al versamento di oneri di urbanizzazione per 950 milioni di lire per l’area ex-Digital (attualmente Green Palace, area contigua a quella per la quale sono state pagate le tangenti), l’architetto Gigi Bossi (allora a capo dell’ufficio tecnico) e il sindaco Nicola Mucci consigliarono a Paggiaro di andare da Caianello per risolvere i problemi connessi a questa acquisizione “che era come dire, siamo sul transatlantico, bisogna parlare col capitano, no?” (riferisce Paggiaro di quanto gli fu detto, ndr); l’architetto Bossi rappresenta a Paggiaro che tutte le decisioni inerenti problemi urbanistici rilevanti sono prese da Caianiello».
CAUSA ED EFFETTO – Paggiaro ha specificato in aula che se ha consegnato quei soldi in quella data «è perché c’era qualche cosa in Comune. Bisognerebbe avere i riscontri che penso voi potete fare. Quando consegnavo i soldi è perché dopo alcuni giorni succedeva un qualcosa in comune,i n giunta, non so il termine adesso giusto, una commissione che doveva far passare quel progetto su quel piano, cioè due o tre giorni prima mi chiedevano i soldi”, una concomitanza che è stata ricostruita dallo stesso pubblico ministero Roberto Pirro durante il dibattimento.
Secondo gli estensori delle motivazioni é intuitivo come questo contesto costituisca «un humus favorevole all’innesco di richieste illecite, strumentalizzando questa situazione e facendo sorgere il timore che non verificandosi la condizione sospensiva, cada tutto il progetto di vendita (per una cifra di 42 miliardi di lire), sorga l’obbligo di restituire l’acconto ricevuto da Esselunga (10 miliardi) e faccia venir meno il prospettato guadagno. Caianiello – scrivono i giudici – ha il peso e la forza di intimidazione che gli deriva dal ruolo e dal collegamento con gli esponenti comunali e può far sorgere in Paggiaro il convincimento di essere in grado di orientare le decisioni amministrative in senso sfavorevole –anche con il semplice ritardo nella trattazione della pratica per esigenze di approfondimento della questione ovvero con l’accettazione di qualche osservazione- alle sue esigenze.
L’AGENDINA – A sostegno dell’accusa, inoltre, i giudici danno un peso importante alle annotazioni sull’agendina dell’ex-moglie di Paggiaro, Anna Maria Iametti: «Il primo e decisivo riscontro alle dichiarazioni di Paggiaro è costituito dal “registrino 3 colonne Cassa 2002” sequestrato a Iametti Annamaria – scrivono e aggiungono – Iametti ne ha riconosciuto la titolarità e ha dichiarato che annotava tutte le spese perché dopo l’ictus che l’aveva colpita nel 2001 non aveva più la memoria di prima. Iametti ha confermato che il nominativo Stefano indicava Rogna (l’uomo della filiale luganese della Banca Popolare di Sondrio che ha trasportato fisicamente i soldi dalla Svizzera all’Italia per conto di Paggiaro, ndr) e che gli importi annotati corrispondevano a somme da questi consegnate». Inoltre, al momento del sequestro del documento, Paggiaro era già in rotta con la famiglia e non aveva la materiale disponibilità delle agende. L’ispettore Marcovicchio, esperto calligrafico, ha escluso che dopo il sequestro Paggiaro avesse potuto compiere alterazioni:
«Del resto, Paggiaro aveva tutto l’interesse a mantenere integra una scrittura che supporta le sue dichiarazioni. I testi si sono sottoposti all’esame delle difese e hanno dato risposte esaurienti, senza contraddizioni, a tutte le domande, specificando date e luoghi, come solo coloro che hanno vissuto personalmente un episodio sono in grado di fare».
I TESTI – Anche i testi dell’accusa sono stati ritenuti credibili, anche se hanno intrattenuto o intrattengono ancora rapporti di lavoro con il Paggiaro: «Sia Montanari che Landini hanno fornito un quadro della vicenda non contraddittorio e lineare, nemmeno quando i difensori degli imputati hanno provato a porre qualche domanda suggestiva». Ulteriore supporto alla tesi dell’accusa, infine, i giudici lo trovano dalla deposizione dell’allora capitano dei Carabinieri di Gallarate D’Amato che, in tempi non sospetti, fu informato della denuncia contro Caianiello e Miano. I giudici rilevano che D’Amato sbagliò: «tenendo una condotta omissiva penalmente rilevante – l’eventuale reato è peraltro prescritto- in quanto il militare non informò l’Autorità Giudiziaria di Busto Arsizio di quanto raccolto nel corso della cena».
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