Barni (Bcc): “La banca deve diventare un partner dell’azienda”

Il direttore del credito cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate analizza il rapporto tra istituti di credito e imprese: «Entrambi hanno di fatto impedito l'emergere di una vera partnership». Barni parteciperà all'incontro "Impresa e banca: un dialogo sostenibile" organizzato da Confartigianato che si terrà il 12 aprile a Saronno

Luca Barni, direttore della Banca di credito cooperativo di Busto Garolfo e Buguggiate, analizza il rapporto tra banche e imprese, rapporto che a causa della crisi economica globale è cambiato radicalmente. Il credit crunch (stretta del credito) altro non è che uno degli effetti generati dalla crisi, ma le radici di questo malessere sono da ricercare nel mancato cambiamento del sistema italiano (bancario e produttivo) oggi non più sostenibile.
Con questa intervista, apriamo una serie di interventi che culminerà nell’incontro, organizzato da Confartigianato Imprese Varese, dal titolo "Impresa e banca: un dialogo sostenibile" che si terrà venerdì 12 aprile (inizio 18 e 30) allo Star Hotel di Saronno a cui parteciperanno come relatori  Luca Barni e Fabio Bolognini. (Per iscriverti  clicca qui; per seguire la diretta e commentare con Twitter #futuroartigianoVa)
L’incontro rientra in un ciclo di 6 appuntamenti in preparazione del congresso degli Artigiani che si terrà al centro congressi Ville Ponti il 19 maggio prossimo.

Barni, lei sostiene che il sistema bancario ha sempre goduto di un frazionamento del rischio che non ha mai permesso, a imprese e istituti di credito, di conoscersi bene. Come si può cambiare?
«La pratica diffusa del frazionamento del rischio ha inevitabilmente significato per le banche una bassa propensione, forse meglio dire una bassa necessità, alla conoscenza approfondita del cliente. Per quest’ultimo ha significato invece la possibilità di non divulgare, fino in fondo, le proprie caratteristiche intrinseche. I due comportamenti hanno quindi, di fatto, impedito l’emergere di una vera partnership, che avesse come obiettivo la crescita di entrambi. Crescita non solo in termini di volumi ma, soprattutto, di progettualità condivisa e codificata; ciò avrebbe automaticamente prodotto e significato un miglior monitoraggio nel tempo, in grado di modificare i rapporti al variare delle condizioni del mercato. Bisogna avere il coraggio di dire che la crescita degli anni novanta e dei primi duemila è avvenuta probabilmente anche perché il mercato cresceva, e forse meno per la qualità e la competitività del proprio lavoro. Oggi i margini di redditività sono minimi per tutti, pertanto è necessario più che mai valorizzare la qualità all’interno di una filiera in cui cliente e banca diventino partner di uno stesso progetto: questa è la sfida principale di questo cambiamento. Mi lasci concludere dicendo che la Banca di Credito Cooperativo, data la sua dimensione decisamente più piccola rispetto al resto del sistema bancario ed al suo radicamento territoriale ha intessuto con l’economia locale un dialogo continuo che le ha permesso di conoscere più in profondità i propri clienti e farsi conoscere da tutto il territorio».

In più occasioni ha sottolineato che impresa e banca, per superare i rispettivi problemi, debbono mettersi in discussione: quali sono questi problemi?
«Le banche hanno goduto di un sistema economico italiano “bancocentrico”, ne hanno sfruttato i benefici senza porsi il problema della correttezza del modello nel medio-lungo termine. Per lungo tempo quindi, forse anche per ragioni storiche – vedi le Bin, ovvero le Banche di Interesse Nazionale -, il settore bancario è stato autoreferenziale e poco ha investito nel miglioramento dell’efficienza da riverberare sul cliente finale. Il problema più importante delle imprese è stato quello di avere, finanziariamente, una visione “corta”, di breve periodo: anche negli anni della produzione di buona redditività, la stessa non è stata quasi mai lasciata in azienda. Il patrimonio è, metaforicamente, l’apparato muscolare dell’azienda ed oggi chi ne è sprovvisto soffre, a parità di condizioni con le altre aziende, molto di più. Alle problematiche strutturali si sono sovrapposte quelle attuali, pensiamo alla normativa bancaria europea unita alla crisi dell’economia reale. Nessuno lo dice ma il sistema bancario nazionale solo nell’ultimo biennio ha spesato oltre 20 miliardi di perdite su crediti».

Quando afferma che in Italia manca una vera cultura aziendale, e che il problema italiano più importante è quello di non riuscire a fare sistema, che cosa intende?
«Cultura aziendale per me significa il complesso dei valori, delle conoscenze e delle caratteristiche specifiche di un’azienda: elementi che si traducono in comportamenti coerenti e consolidati verso gli stakeolder aziendali, tra i quali la Banca. I valori e le conoscenze per essere mantenuti hanno bisogno di progettualità a medio termine e soprattutto quest’ultimo aspetto non è stato approfondito, troppe volte la vision dell’azienda è solo nella “testa” dell’imprenditore.
La mancanza di progettualità e comunicazione/condivisione della propria cultura non facilita la creazione di un sistema per il semplice motivo che non vengono messe a fattor comune e valorizzate le diverse culture aziendali. Insomma, per tanti anni ha prevalso l’Io, ora è più che mai necessario il Noi».

Dunque, si può affermare che tra impresa e banca non serve solo un dialogo ma una vera e propria partnership?
«I nostri imprenditori sono molto bravi a fare il loro mestiere ma, soprattutto quando raggiungono determinate dimensioni, non colgono l’importanza della gestione finanziaria dell’azienda. Spesso ho visto in questo periodo aziende con prodotti e servizi d’eccellenza andare in difficoltà per una gestione non oculata della parte finanziaria. La banca deve diventare un partner coinvolto nella definizione e programmazione della gestione finanziaria aziendale. Quindi il primo passo da fare da parte dell’imprenditore è quello di scegliersi la banca di riferimento».

Qual è il comportamento tipico della piccola impresa quando chiede un finanziamento?

«Molto spesso lo chiede in prossimità dell’esigenza di copertura finanziaria, emerge quindi in modo evidente che alla parte finanziaria aziendale non viene dedicata la necessaria importanza: spesso, invece, avere o non avere le risorse finanziarie disponibili al momento giusto rappresenta la discriminante tra l’avvio, o meno, di un progetto. Se a ciò si aggiunge che la documentazione contabile non è aggiornata, allora il dialogo con la Banca diventa ancora più difficoltoso perché a questo punto gli unici dati che quest’ultima ha a disposizione sono quelli “quantitativi” relativi all’operatività del cliente (e tutti sappiamo che per vari motivi oggi non sono molto brillanti).
La piccola impresa è molto concentrata su produzione e vendita mentre, al contrario, il controllo di gestione e’ attività’ rara: ma quest’ultimo, associato ad un piano industriale e finanziario (sembrano parole grosse, ma tutto può essere proporzionale alla dimensione dell’azienda) è esattamente lo strumento di “trasmissione” delle caratteristiche aziendali alla Banca: per la serie “dalla testa dell’imprenditore” ad un documento spendibile nel sistema bancario. Mi permetto di dire che su quest’ultimo punto l’Associazione degli Artigiani può assumere un ruolo determinante nel percorso di crescita sulle tematiche in oggetto: ha una visione globale delle dinamiche economico/patrimoniali degli associati, ne conosce le caratteristiche comuni a particolari categorie e quindi la possibilità di intervento aggregato e da ultimo, ma non per importanza, permette all’artigiano di dedicarsi a ciò che sa fare al meglio, il proprio lavoro».

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Pubblicato il 09 Aprile 2013
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