Bettinelli come Sannino, per i playout servono undici minatori in campo

L'attuale mister del Varese fu uno degli artefici della promozione in serie B. Riproponiamo un brano della tesi che Sannino presentò a Coverciano dove ripercorre le emozioni di quella mitica stagione

Stefano Bettinelli (foto) è ritornato da poche settimane sulla panchina del Varese. Secondo di Beppe Sannino, il suo contributo fu fondamentale per la riconquista della serie B. Silenzioso quanto determinato, Bettinelli è l’uomo che puo’ far rinascere quello stesso spirito che portò i biancorossi alla storica promozione perché nella sfida contro il Novara ci vorranno «undici minatori in campo», come diceva Sannino, e Bettinelli è l’unico che può riaccendere la luce in fondo alla galleria della serie cadetta. È per questo che riproponiamo un brano, tratto dalla tesi "Il gioco del calcio: aspettative, delusioni, pseudo successi" che Sannino presentò a Coverciano per conseguire il patentino per allenare in serie A, dove l’ex mister racconta le emozioni della finale contro la Cremonese e il clima vissuto dalla città.
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Dopo due giornate lasciamo spiccare il volo verso la serie B a uno dei protagonisti della promozione dell’anno precedente, al suo posto un giocatore deluso per non essere stato confermato nella serie cadetta. A dicembre un altro pezzo importante se ne andava, richiesto addirittura dalla serie A, al suo posto una mia vecchia conoscenza, mio giocatore già ai tempi dei berretti del Monza, ora ultra trentenne fuori rosa in una nostra diretta concorrente alla salvezza.
Un percorso che settimana dopo settimana mi regalava nuove sensazioni ed insperate emozioni. Tra le tante quella di vedere sempre più coperti i gradoni del settore “Distinti”, il settore che balza all’occhio all’uscita dal tunnel degli spogliatoi.
Causa lavori alla struttura per alcune gare utilizzammo i vecchi spogliatoi interrati. Per i giocatori e i media solo dei locali fatiscenti. Per me erano invece pareti e pavimenti toccati dai campioni del Varese di Giovanni Borghi, quello che umiliò Inter e Juventus in serie A.
Per tenere a bada il crescente entusiasmo misto ad esaltazione, mi inventai per la squadra il ruolo di minatori, con la strada illuminata da una piccola luce fissata sul caschetto.
Alla fine la luce l’abbiamo vista e toccata. In una domenica in cui non solo il cemento dei “Distinti” non si vedeva più, ma anche quello delle curve così come i seggiolini della tribuna.
Una domenica iniziata la mattina presto, dopo una notte insonne, girando a zonzo con la macchina per le vie della città: una città che improvvisamente mi sembrava quella dove giocavo da bambino oppure la Torino della mia adolescenza in cui ci si sfidava tra Vie (ricordo che essendo il più bravo mi venivano assegnate regola “ad personam” del tipo: “un tuo gol vale solo dopo che riuscirai a far tunnel a tutti gli avversari”).
Interminabili partite in cui venni notato da un passante che mi propose di entrare a far parte di una squadra vera, il Madonna di Campagna. Già a 12 anni la mia risposta non arrivò dalla testa ma dal cuore: “vengo se mi diverto e mi diverto solo se prendete anche i miei amici.”
Pensieri e ricordi interrotti bruscamente dalla grande emozione di vedere sventolare bandiere biancorosse su finestre e balconi, dove fino a poche settimane prima si vedevano solo i colori di Juve/Inter/Milan.
La mia corsa finì, quasi senza accorgermi, allo stadio.
Mentre iniziavo a percorrere, per scaricare la tensione, l’anello sotto la pista di ciclismo, pensai al mattino precedente, con la tribuna piena di tifosi, all’incontro avuto, al termine della rifinitura, con la squadra di hockey dei ragazzi in carrozzina, ammalati di distrofia muscolare: una scarica di dignità e coraggio che per l’emozione ci pietrifica (io, i dirigenti, i giocatori). “Mister, per noi domani non sarà possibile entrare allo stadio. Noi, ieri, abbiamo vinto lo scudetto. Domani tocca a voi!”. Me lo dice il capitano donandomi la sua maglia fresca di tricolore. Mi stringe la mano, mi sorride guardandomi negli occhi… indimenticabile. Mentre camminavo sentivo anche le voci dei tifosi che stavano allestendo una scenografia mai vista prima. I toni non denotavano la minima incertezza in merito al verdetto finale: “serie B!”. La stessa fiducia incondizionata, che li aveva spinti a 600km di distanza dalla prima gara di semifinale e in massa alla prima finale, occasione in cui, pur sconfitti, al nostro ritorno allo stadio di Varese ci aspettarono festanti, costringendo il nostro pullman a bloccarsi in mezzo alla strada.
Uscito dallo stadio e tornato al parcheggio, non vedevo più la mia Audi. Per un attimo al suo posto vedevo la mia vecchia Ibiza a metano. Quella che mio figlio, attraverso un sms, mi ha scritto di non scordare mai, nemmeno in quella che poteva essere la giornata della vita, che aspettavo da una vita.
Un figlio che con sua sorella e la mamma, sono la contraddizione di un uomo di successo nel ruolo di capobranco, incapace però di tenere unito il gruppo più importante: una famiglia.
Tornato dal ristorante, pranzai come consuetudine con la squadra e prima di ripartire per lo stadio rispettammo il rito della preghiera comune, un’Ave Maria. Con noi c’erano una città e uno stadio in festa, così, spinto non so da che cosa, rifeci lo stesso giro del mattino ma questa volta a bordo campo, una mano sul cuore e l’indice dell’altra verso i tifosi, sempre con gli occhi fissi verso la gente, tifosi avversari inclusi. Cercai di fotografare mentalmente ogni volto. Terminato il giro rientrai negli spogliatoi ed ai giocatori lessi un sms mandatomi dal responsabile della scuola calcio, ammalato di tutto ciò che sa di Brasile. Era il discorso fatto dall’allenatore della nazionale di calcio brasiliana Felipe Scolari, ai suoi giocatori, prima di scendere in campo nella finale che valse ai verde-oro la 5a coppa del mondo. Il finale recitava pressappoco così: “noi vinceremo questa partita di calcio perché siamo uomini. Loro, i nostri avversari, sono solamente calciatori.
La mia domenica finì in quel momento. Comunque sarebbe andata avrei vinto, per come arrivai a vivere e stavo vivendo l’emozione di quel giorno.
Quello che è successo in campo fu solo merito dei giocatori, poi un fiume in piena… con la festa per la vittoria, preparata ed invocata dai tifosi per la squadra e la società. Sannino era stato ribattezzato San Nino. Non male per chi un giorno fu costretto a non portare il figlio allo stadio di Crema per non sentir definire suo padre: “eco-balla napoletana”. Lo stesso dipendente dell’ASL che fino a poco tempo prima, allenava in C2 presentandosi al campo in tuta da lavoro, alla guida di una Fiat “Punto” e per questo ripreso dal presidente pseudo mecenate, che a fatica arrivava con i piedi ai pedali della sua Mercedes. Lezioni, sensazioni, gioie ed emozioni che resteranno indelebili ma che inevitabilmente mi proiettano già in quella che sarà una nuova dimensione. Sarò all’altezza? Saprò muovermi in un mondo che non è mai stato il mio e del quale, fino ad oggi, ho solo letto sul giornale? Saprò mantenere il mio modo di vivere i rapporti con squadra e città? Dubbi che si dissolveranno alla prima vittoria o che diventeranno pesanti macigni alla prima sconfitta, perché il mondo del calcio, che amo ma non abbastanza per permettergli di cambiare il mio modo d’essere, è un mondo di ASPETTATIVE, DELUSIONI e PSEUDO SUCCESSI.

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Pubblicato il 05 Giugno 2014
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